GLI INTERROGATIVI DEL CASO MORO (III° PARTE)

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    La prigione di Aldo Moro


    E’ ormai “verità processuale” (il che non vuol dire che sia verità) che Aldo Moro sia stato tenuto


    prigioniero, per tutti i 55 giorni del sequestro, nell’appartamento all’interno 1 di via Montalcini 8,


    nel quartiere Portuense, a Roma.


    Un primo accenno ad una prigione di Moro era comparsa in un fumetto pubblicato all’inizio di


    giugno del 1979 dal primo numero di

    Metropoli, periodico dell’autonomia operaia. Nel fumetto

    (disegni di Beppe Madaudo, sceneggiatura di Melville, pseudonimo usato da Rosalinda Socrate),


    la tavola con l’interrogatorio di Moro era preceduta da una didascalia che diceva: “

    Mentre a via

    Fani cominciano le indagini, nella stanza interna di un garage del quartiere Prati comincia


    l’interrogatorio di Moro

    “. Interrogato, Madaudo disse di aver ricalcato il disegno dal settimanale

    Grand Hotel

    .

    Dopo la versione disegnata, il primo a parlare della prigione dello statista DC è stato il “pentito”


    Patrizio Peci, che ha raccontato però di aver appreso che Moro fu tenuto nascosto nel


    retrobottega di un negozio poco fuori Roma. La versione di Peci venne in seguito smentita da


    Antonio Savasta, catturato il 28 gennaio 1982 alla fine del rapimento Dozier; il Savasta cominciò


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    subito a “collaborare” e disse di aver saputo che Moro venne tenuto prigioniero in un


    appartamento di proprietà di Anna Laura Braghetti. All’inizio l’attenzione degli inquirenti si


    concentrò sull’appartamento che era stato del padre in via Laurentina 501, subito dopo però le


    indagini si orientarono su via Montalcini, una casa acquistata nel giugno 1977 per 50 milioni


    circa, e dove Anna Laura Braghetti si era trasferita nel dicembre dello stesso anno.


    Due anni dopo Valerio Morucci e Adriana Faranda hanno confermato che Moro trascorse tutta


    la sua prigionia nell’appartamento abitato non solo dalla Braghetti, ma anche da Prospero


    Gallinari, e frequentato da Mario Moretti e da – ma lo si è saputo molto dopo – Germano


    Maccari, il fantomatico “Ingegner Altobelli”.


    Prima cosa bizzarra è il fatto che il 5 luglio 1980 il giudice Ferdinando Imposimato apprese che


    l’UCIGOS, nell’estate 1978, aveva svolto indagini sulla Braghetti e via Montalcini. L’appunto


    sulle indagini gli venne consegnato il 30 luglio, ma era in forma anonima e non conteneva i nomi


    di chi aveva svolto le indagini. Sempre a tale proposito, nel febbraio 1982 sul quotidiano

    La

    Repubblica

    Luca Villoresi scrisse:

    Sono passati pochi giorni dalla strage di via Fani quando alla polizia arriva una prima

    segnalazione, forse una voce generica, forse una soffiata precisa […] ma all’interno 1 di via


    Montalcini 8 gli agenti non bussano

    “.

    Nel 1988 si venne poi a sapere che verso la metà di luglio 1978, pochi mesi dopo il sequestro,


    l’avv. Mario Martignetti (che sembra lo avesse saputo da una coppia di suoi parenti) segnalò


    all’On. Remo Gaspari che una Renault 4 rossa – come quella in cui le Br lasciarono il cadavere di


    Moro – era stata vista in via Montalcini 8 nel periodo del rapimento ed era scomparsa dopo la


    morte di Moro. Gaspari informò il ministro Rognoni il quale attivò le indagini subito affidate


    all’UCIGOS. In seguito, l’ispettrice dell’UCIGOS incaricata del caso ha riferito che dalle indagini


    era emerso che, fino al giugno 1978, con la Braghetti abitava un uomo che si faceva chiamare


    Ingegner Altobelli. L’ispettrice disse anche che, ritenendo che una perquisizione a due mesi dalla


    morte di Moro avrebbe dato esito negativo e avrebbe insospettito la Braghetti, preferì farla


    pedinare per cercare di arrivare ad Altobelli o scoprire se frequentava gruppi eversivi. I


    pedinamenti durarono fino alla metà di ottobre ma ebbero risultati negativi perché la Braghetti


    usciva puntualmente per recarsi al lavoro e al ritorno a casa faceva cose normali. Il 16 ottobre


    1978, un appunto dell’UCIGOS informò la magistratura che gli inquilini dell’interno 1 non


    destavano sospetti. I pedinamenti e le richieste di informazioni sul suo posto di lavoro (di cui la


    Braghetti viene a sapere) spinsero però la terrorista ad entrare in clandestinità e a lasciare (il 4


    ottobre ’78) l’appartamento, che nel frattempo aveva venduto ad una signora (moglie del


    segretario particolare dell’ex ministro Ruffini).


    Stranamente, nell’agosto 1978 la Braghetti ebbe un’accesa disputa con l’ex inquilino


    dell’appartamento, Gianfranco Ottaviani, che aveva mantenuto la disponibilità della cantina; la


    Brigatista scardinò la porta della cantina e l’ex inquilino chiamò immediatamente la polizia. Per


    una lite banale la brigatista rischiò così un pericoloso intervento della polizia. Ma invece proprio


    quella lite venne usata dall’UCIGOS per spiegare che la Braghetti e Altobelli, che risultava


    trasferito in Turchia da qualche mese per motivi di lavoro, non erano sospettabili, perché


    altrimenti avrebbero evitato la lite con l’intervento del 113.


    Solo nel 1993 si è arrivati alla vera identità del così detto “quarto uomo”, Germano Maccari, che


    sembra proprio essere quell’ing. Altobelli a cui erano intestate le utenze di luce e gas, come lui


    stesso ammette nel 1996. Stranamente l’individuazione di Maccari avvenne proprio lo stesso


    giorno in cui trapelarono dalla stampa le dichiarazioni di Saverio Morabito secondo il quale


    Antonio Nirta, killer della mafia calabrese e confidente del generale dei carabinieri Francesco


    Delfino, era stato “

    uno degli esecutori materiali del sequestro dell’on. Aldo Moro“.

    Molto interessante mi è parsa una circostanza apparsa nel suo recente libro

    Il delitto Moro da

    Francesco Biscione, e riguardante il fatto che nelle immediate vicinanze di via Montalcini, a


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    pochi passi dal covo delle Br, abitavano numerosi esponenti della Banda della Magliana.


    L’elenco è molto dettagliato:


    In via G. Fuggetta 59 (a 120 passi da via Montalcini) abitavano Danilo Abbruciati, Amelio

    Fabiani, Luciano Mancini; in via Luparelli 82 (a 230 passi dalla prigione del popolo) abitavano


    Danilo Sbarra e Francesco Picciotto (uomo del Boss Pippo Calò); in via Vigna due Torri 135


    (a 150 passi) abitava Ernesto Diotallevi, segretario del finanziere P2ista Carboni); infine in via


    Montalcini al n°1 c’era Villa Bonelli, appartenente a Danilo Sbarra

    “.

    In effetti la “prigione del popolo” era situata proprio nel quartiere romano della Magliana, una


    zona notoriamente controllata in modo capillare da quel particolare tipo di malavita collegato,


    come poi si è saputo con certezza, a settori deviati dei servizi segreti e all’eversione “nera”.


    Per quanto riguarda la gestione del rapimento, il campo si ristringe, diminuiscono drasticamente


    le prove e di contro aumenta il numero di indizi e deduzioni logiche possibili.


    Due avvenimenti accaduti il 18 aprile segnarono a mio avviso gli sviluppi successivi del


    rapimento proprio in questa direzione: la misteriosa scoperta del covo di via Gradoli ed il quasi


    contemporaneo ritrovamento del falso comunicato n°7.


    La scoperta di una base delle Br in Via Gradoli avvenne in un modo casuale ma alquanto strano:


    i pompieri furono chiamati dagli inquilini dei piani inferiori per una perdita d’acqua


    dall’appartamento dove andava a dormire il leader delle Br, Mario Moretti (colui che interrogò


    Aldo Moro). L’ipotesi che ho cercato di avvalorare – come sempre tra mille difficoltà e poche


    prove certe – è che quel covo, sia stato “bruciato” da qualcuno [servizi segreti? un infiltrato?


    oppure qualche brigatista contrario all’uccisione di Moro?] grazie al trucchetto della doccia


    rivolta verso il muro e che provoca infiltrazione d’acqua nell’appartamento sottostante per


    permettere a chi di dovere di recuperare le carte di Moro riguardanti la P2, Gladio e tutto ciò che


    era probabilmente contenuto nelle sue borse scomparse, nonché le confessioni fatte dal


    presidente alle Br.


    Il tutto venne fatto in modo assai rumoroso per permettere a Moretti e alla Balzerani di essere


    informati per tempo dalla TV e poter così continuare a gestire il rapimento. Serviva però un


    diversivo, qualcosa che distogliesse l’attenzione generale dal covo; ecco che lo stesso giorno


    “qualcuno” fece ritrovare il falso comunicato N°7, quello dove si sosteneva che il cadavere di


    Aldo Moro si trovava in fondo al Lago della Duchessa. Allo stesso tempo questa doppia


    operazione ha probabilmente segnato in modo decisivo il rapimento, nel senso che questo era un


    chiaro avvertimento rivolto alle stesse Br: “Guardate che possiamo prendervi quando vogliamo,


    che non vi venga in mente di far concludere il sequestro in un modo differente da quello indicato


    dal falso comunicato perché potreste pagarlo caro…”.


    Dunque mentre il comunicato arrivava al Viminale, i vigili del fuoco arrivavano in via Gradoli:


    le due messinscene che procedettero in perfetta sincronia, due “sollecitazioni” fatte affinché il


    sequestro si concludesse rapidamente e nella maniera più idonea. Nello stesso comunicato – oltre


    a suggerire ai brigatisti quale fosse l’epilogo più opportuno del rapimento – si trovano infatti dei


    precisi “segnali” che dovevano indirizzare le Br in tale direzione, come l’accenno alla morte di


    Moro mediante suicidio, proprio come era accaduto ai capi della RAF in Germania nel carcere di


    Stammheim. Tra l’altro non è affatto credibile che l’appartamento di Via Gradoli 96 sia stato


    lasciato da Moretti e Barbara Balzerani nelle condizioni in cui è stato descritto nei verbali della


    polizia: bombe a mano sparse sul pavimento, un cassetto messo in bella mostra sul letto e


    contenente una pistola mitragliatrice, documenti e volantini disseminati ovunque [proprio come


    se qualcuno avesse messo sottosopra il covo per cercare qualcosa…] . Ed è perfino incredibile


    che le forze dell’ordine si siano comportate in un modo così “rumoroso” (volanti giunsero a


    sirene spiegate e immediatamente si formò una piccola folla di curiosi e giornalisti) subito dopo


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    la scoperta del covo, quando invece dopo il ritrovamento della base di Robbiano di Mediglia


    avevano atteso con la massima discrezione il rientro dei terroristi, arrestandoli uno dopo l’altro.


    A mio avviso, l’occulta regia della duplice manovra del 18 Aprile poté procedere liberamente


    all’interno del covo predisponendo una messinscena, allo stesso tempo diffuse un comunicato


    falso, chiaro segnale di una perfetta conoscenza dei retroscena del sequestro e di come le Br e


    Moretti lo stessero conducendo.


    Una delle possibili implicazioni logiche che la scoperta “accidentale” del covo comportò fu


    quella di far diventare anche la prigione di via Montalcini piuttosto insicura, dunque è possibile


    – anzi, assai probabile – che Moro sia stato portato velocemente in un altro covo-prigione.


    Le carte di Moro all’interno del covo “bruciato” furono forse ritrovate, ma probabilmente non


    nella loro totalità, e la cosa dovette suscitare le ire degli interessati, tant’è vero che – ma qui forse


    le mie ipotesi diventano troppo fantasiose – chi nel corso degli anni ne è stato probabilmente in


    possesso è stato in qualche modo eliminato (Pecorelli e Dalla Chiesa, tanto per fare due nomi).


    Con il duplice messaggio del 18 Aprile, rivolto chiaramente al vertice Br, la gestione del


    sequestro entrò in una nuova fase; le Brigate rosse non avevano più la possibilità di proseguire la


    “campagna di primavera” da loro progettata ma dovevano piegarsi a delle volontà


    indiscutibilmente superiori: apparati “deviati” dello stato ed il loro occasionale “braccio destro”,


    la “banda della Magliana” cui apparteneva Chichiarelli. Come vedremo, molti indizi ci


    indirizzano proprio in questo sentiero.

    Il covo di via Gradoli


    Ma se il 18 Aprile ’78 fu la data dalla quale cambiò materialmente la gestione del rapimento, il


    momento in cui venne presa – e da più parti – la decisione di intervenirvi direttamente fu con ogni


    probabilità immediatamente successiva, e precisamente quando venne resa nota la prima lettera


    di Moro a Cossiga, in cui sollecitava la trattativa con le Br invocando la ragion di stato e non


    motivi umanitari.


    Quella lettera doveva restare segreta e nelle intenzioni di Moro doveva servire ad aprire un


    canale diretto per la trattativa. Invece Mario Moretti la allegò al comunicato numero 3 delle Br,


    in cui si annunciava che il processo a Moro stava continuando “

    con la piena collaborazione del

    prigioniero

    “, e la fece recapitare ai giornali. A quel punto probabilmente si attivarono molti

    servizi segreti: quelli occidentali per proteggere gli eventuali segreti rivelati da Moro, quelli


    orientali per carpirli.

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