Gorbaciov racconta di Chernobyl fermato da motivi di salute

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    Cernobyl fu 20 anni fa. Era il 26 aprile del secondo anno di Mikhail Gorbaciov alla testa del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. La perestrojka era appena cominciata e il paese era in pieno fermento. I giornalisti, la stampa soprattutto, ma anche la tv, avevano già sentito allentarsi le redini che li avevano tenuti ben stretti alla linea del partito. Cosa successe in quei momenti nei palazzi del potere sovietico? La memoria di Mikhail Sergheevic è ancora viva: «Per me ci fu un “prima” e un “dopo” Cernobyl. Nel senso che quella tragedia mi aprì gli occhi sullo stato del mondo e sui rischi che tutti correvamo».  Questo ha detto l’ex premier in un’itervista alla Stampa al giornalista Giulietto Chiesa. Rimandato, purtroppo, l’arrivo al San Pietro di Positano dove era dato per certo, motivi di salute hanno fatto si che la sua presenza fosse stata rinviata seppur data per certa perchè ospite nella struttura positanese a causa per premio che avrebbe dovuto ricevere martedi ad Avellino.

    Rischi per l’uso dell’energia atomica a scopi pacifici?
    «Non soltanto. Io ho sempre visto in un unico contesto, a partire proprio da quel momento, l’energia atomica per usi civili e le armi atomiche. Qualche mese dopo il collasso del reattore di Cernobyl, uno scienziato mi fece notare che una sola testata di un missile SS-18, di quelli che allora gli americani chiamavano “satana”, era equivalente a 100 Cernobyl. E gli SS-18 di testate ne avevano dieci ciascuno».
    Cernobyl è rimasto nella memoria degli storici come la dimostrazione che la glasnost, la trasparenza, l’informazione corretta, non funzionava ancora. È così?
    «Non sono d’accordo. Noi non nascondemmo nulla dal momento in cui venimmo a conoscenza dei fatti. All’inizio nessuno sapeva cosa esattamente fosse successo. Ma non ci fu una censura attiva. Il giorno dopo erano già arrivate sul posto due commissioni. Una era statale, l’altra scientifica, dell’Accademia delle Scienze. La guidava l’accademico Evghenij Velikhov. Ma non riuscirono a concludere se vi fosse stata un’esplosione oppure no. E non fu subito neppure accertato se vi fosse una contaminazione radioattiva estesa. Basti pensare che il primo giorno dopo l’incidente anche i membri della delegazione scientifica dormirono a Cernobyl, e si presero una dose di contaminazione assai rilevante. Che ci fosse stata una grande emissione di materiali radioattivi lo si scoprì soltanto il 28 aprile».

    Chi furono i primi membri del Politburò ad arrivare sul posto?
    «Nikolai Ryzhkov, il capo del governo, e Egor Ligaciov il numero due del partito. C’erano anche Anatolij Aleksandrov, presidente dell’Accademia delle Scienze, e due ministri, tra i quali il responsabile delle centrali nucleari. Quando, gradualmente, ci si rese conto delle dimensioni del disastro, vennero prese le decisioni. Impiegammo un giorno e mezzo per decidere l’evacuazione della zona: prima nel raggio di 10 chilometri. E venne sgomberata l’intera cittadina di Prip’jat, dove vivevano le famiglie delle maestranze, più di 15 mila persone. Poi, nelle dieci ore successive si decise di allargare l’evacuazione a 30 chilometri».

    E cosa ne seppero i cittadini russi? Io ricordo che l’allarme arrivò dall’occidente, dalle stazioni di rilevamento radioattivo di alcuni paesi scandinavi.
    «È vero, ma noi anche apprendemmo in quel momento la vastità dell’emissione radioattiva. Informammo l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica e li invitammo a fare i sopralluoghi senza perdere un solo minuto e senza creare ostacoli. Quello che sapevamo lo comunicammo ai giornali».

    E i giornalisti sovietici fecero qualcosa per sapere la verità, senza aspettare i comunicati ufficiali?
    «La nostra unica preoccupazione, in quei momenti, fu di evitare il panico. Le misure di isolamento dell’area erano doverose e tutti gli sforzi furono concentrati nelle operazioni di salvataggio. Almeno un milione di persone erano in pericolo. Non posso dire che tutto andò bene, niente affatto, ma il problema principale non fu quello di nascondere la verità. E poi, negli Usa vi fu un incidente analogo a Three Miles Island, e nessuno ne seppe niente fino a che le autorità decisero di rendere nota la cosa. E in Francia non si sono ancora spente le polemiche perché il governo aveva dato disposizione di minimizzare gli effetti della nube radioattiva per evitare che fossero messe in discussione le centrali francesi. La glasnost non trionfava ovunque».

    In Russia si accese il dibattito e nacquero i primi gruppi ecologisti. Cosa ricorda?
    «Ci fu una discussione, anche questa largamente pubblica, sulla necessità di liberarci dei reattori del tipo RBMK. Emersero gravi errori nella dislocazione territoriale delle centrali. Il 3 luglio il Politburò decise di interrompere la costruzione di nuovi reattori e di chiudere la centrale atomica in Armenia, che veniva costruita in territorio sismico. Tutto questo avvenne non nel chiuso delle stanze del Cremino ma sui giornali e in tv».

    Vent’anni dopo le sue idee sull’atomo pacifico e su quello militare sono cambiate?
    «Niente affatto. Anzi l’inquietudine è cresciuta. Il processo di disarmo nucleare, e chimico, si è interrotto. La modernizzazione delle armi nucleari è in grande sviluppo. Il principio di non proliferazione viene rimesso in discussione e il club delle maggiori potenze non ha fatto nulla per ridurre la sua superiorità nucleare. Adesso ci sono trenta paesi in grado di produrre armi nucleari. Gli Stati Uniti pCernobyl fu 20 anni fa. Era il 26 aprile del secondo anno di Mikhail Gorbaciov alla testa del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. La perestrojka era appena cominciata e il paese era in pieno fermento. I giornalisti, la stampa soprattutto, ma anche la tv, avevano già sentito allentarsi le redini che li avevano tenuti ben stretti alla linea del partito. Cosa successe in quei momenti nei palazzi del potere sovietico? La memoria di Mikhail Sergheevic è ancora viva: «Per me ci fu un “prima” e un “dopo” Cernobyl. Nel senso che quella tragedia mi aprì gli occhi sullo stato del mondo e sui rischi che tutti correvamo».

    Rischi per l’uso dell’energia atomica a scopi pacifici?
    «Non soltanto. Io ho sempre visto in un unico contesto, a partire proprio da quel momento, l’energia atomica per usi civili e le armi atomiche. Qualche mese dopo il collasso del reattore di Cernobyl, uno scienziato mi fece notare che una sola testata di un missile SS-18, di quelli che allora gli americani chiamavano “satana”, era equivalente a 100 Cernobyl. E gli SS-18 di testate ne avevano dieci ciascuno».
    Cernobyl è rimasto nella memoria degli storici come la dimostrazione che la glasnost, la trasparenza, l’informazione corretta, non funzionava ancora. È così?
    «Non sono d’accordo. Noi non nascondemmo nulla dal momento in cui venimmo a conoscenza dei fatti. All’inizio nessuno sapeva cosa esattamente fosse successo. Ma non ci fu una censura attiva. Il giorno dopo erano già arrivate sul posto due commissioni. Una era statale, l’altra scientifica, dell’Accademia delle Scienze. La guidava l’accademico Evghenij Velikhov. Ma non riuscirono a concludere se vi fosse stata un’esplosione oppure no. E non fu subito neppure accertato se vi fosse una contaminazione radioattiva estesa. Basti pensare che il primo giorno dopo l’incidente anche i membri della delegazione scientifica dormirono a Cernobyl, e si presero una dose di contaminazione assai rilevante. Che ci fosse stata una grande emissione di materiali radioattivi lo si scoprì soltanto il 28 aprile».

    Chi furono i primi membri del Politburò ad arrivare sul posto?
    «Nikolai Ryzhkov, il capo del governo, e Egor Ligaciov il numero due del partito. C’erano anche Anatolij Aleksandrov, presidente dell’Accademia delle Scienze, e due ministri, tra i quali il responsabile delle centrali nucleari. Quando, gradualmente, ci si rese conto delle dimensioni del disastro, vennero prese le decisioni. Impiegammo un giorno e mezzo per decidere l’evacuazione della zona: prima nel raggio di 10 chilometri. E venne sgomberata l’intera cittadina di Prip’jat, dove vivevano le famiglie delle maestranze, più di 15 mila persone. Poi, nelle dieci ore successive si decise di allargare l’evacuazione a 30 chilometri».

    E cosa ne seppero i cittadini russi? Io ricordo che l’allarme arrivò dall’occidente, dalle stazioni di rilevamento radioattivo di alcuni paesi scandinavi.
    «È vero, ma noi anche apprendemmo in quel momento la vastità dell’emissione radioattiva. Informammo l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica e li invitammo a fare i sopralluoghi senza perdere un solo minuto e senza creare ostacoli. Quello che sapevamo lo comunicammo ai giornali».

    E i giornalisti sovietici fecero qualcosa per sapere la verità, senza aspettare i comunicati ufficiali?
    «La nostra unica preoccupazione, in quei momenti, fu di evitare il panico. Le misure di isolamento dell’area erano doverose e tutti gli sforzi furono concentrati nelle operazioni di salvataggio. Almeno un milione di persone erano in pericolo. Non posso dire che tutto andò bene, niente affatto, ma il problema principale non fu quello di nascondere la verità. E poi, negli Usa vi fu un incidente analogo a Three Miles Island, e nessuno ne seppe niente fino a che le autorità decisero di rendere nota la cosa. E in Francia non si sono ancora spente le polemiche perché il governo aveva dato disposizione di minimizzare gli effetti della nube radioattiva per evitare che fossero messe in discussione le centrali francesi. La glasnost non trionfava ovunque».

    In Russia si accese il dibattito e nacquero i primi gruppi ecologisti. Cosa ricorda?
    «Ci fu una discussione, anche questa largamente pubblica, sulla necessità di liberarci dei reattori del tipo RBMK. Emersero gravi errori nella dislocazione territoriale delle centrali. Il 3 luglio il Politburò decise di interrompere la costruzione di nuovi reattori e di chiudere la centrale atomica in Armenia, che veniva costruita in territorio sismico. Tutto questo avvenne non nel chiuso delle stanze del Cremino ma sui giornali e in tv».

    Vent’anni dopo le sue idee sull’atomo pacifico e su quello militare sono cambiate?
    «Niente affatto. Anzi l’inquietudine è cresciuta. Il processo di disarmo nucleare, e chimico, si è interrotto. La modernizzazione delle armi nucleari è in grande sviluppo. Il principio di non proliferazione viene rimesso in discussione e il club delle maggiori potenze non ha fatto nulla per ridurre la sua superiorità nucleare. Adesso ci sono trenta paesi in grado di produrre armi nucleari. Gli Stati Uniti progettano la militarizzazione atomica dello spazio cosmico. E Usa e Francia hanno recentemente dichiarato di coCernobyl fu 20 anni fa. Era il 26 aprile del secondo anno di Mikhail Gorbaciov alla testa del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. La perestrojka era appena cominciata e il paese era in pieno fermento. I giornalisti, la stampa soprattutto, ma anche la tv, avevano già sentito allentarsi le redini che li avevano tenuti ben stretti alla linea del partito. Cosa successe in quei momenti nei palazzi del potere sovietico? La memoria di Mikhail Sergheevic è ancora viva: «Per me ci fu un “prima” e un “dopo” Cernobyl. Nel senso che quella tragedia mi aprì gli occhi sullo stato del mondo e sui rischi che tutti correvamo».

    Rischi per l’uso dell’energia atomica a scopi pacifici?
    «Non soltanto. Io ho sempre visto in un unico contesto, a partire proprio da quel momento, l’energia atomica per usi civili e le armi atomiche. Qualche mese dopo il collasso del reattore di Cernobyl, uno scienziato mi fece notare che una sola testata di un missile SS-18, di quelli che allora gli americani chiamavano “satana”, era equivalente a 100 Cernobyl. E gli SS-18 di testate ne avevano dieci ciascuno».
    Cernobyl è rimasto nella memoria degli storici come la dimostrazione che la glasnost, la trasparenza, l’informazione corretta, non funzionava ancora. È così?
    «Non sono d’accordo. Noi non nascondemmo nulla dal momento in cui venimmo a conoscenza dei fatti. All’inizio nessuno sapeva cosa esattamente fosse successo. Ma non ci fu una censura attiva. Il giorno dopo erano già arrivate sul posto due commissioni. Una era statale, l’altra scientifica, dell’Accademia delle Scienze. La guidava l’accademico Evghenij Velikhov. Ma non riuscirono a concludere se vi fosse stata un’esplosione oppure no. E non fu subito neppure accertato se vi fosse una contaminazione radioattiva estesa. Basti pensare che il primo giorno dopo l’incidente anche i membri della delegazione scientifica dormirono a Cernobyl, e si presero una dose di contaminazione assai rilevante. Che ci fosse stata una grande emissione di materiali radioattivi lo si scoprì soltanto il 28 aprile».

    Chi furono i primi membri del Politburò ad arrivare sul posto?
    «Nikolai Ryzhkov, il capo del governo, e Egor Ligaciov il numero due del partito. C’erano anche Anatolij Aleksandrov, presidente dell’Accademia delle Scienze, e due ministri, tra i quali il responsabile delle centrali nucleari. Quando, gradualmente, ci si rese conto delle dimensioni del disastro, vennero prese le decisioni. Impiegammo un giorno e mezzo per decidere l’evacuazione della zona: prima nel raggio di 10 chilometri. E venne sgomberata l’intera cittadina di Prip’jat, dove vivevano le famiglie delle maestranze, più di 15 mila persone. Poi, nelle dieci ore successive si decise di allargare l’evacuazione a 30 chilometri».

    E cosa ne seppero i cittadini russi? Io ricordo che l’allarme arrivò dall’occidente, dalle stazioni di rilevamento radioattivo di alcuni paesi scandinavi.
    «È vero, ma noi anche apprendemmo in quel momento la vastità dell’emissione radioattiva. Informammo l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica e li invitammo a fare i sopralluoghi senza perdere un solo minuto e senza creare ostacoli. Quello che sapevamo lo comunicammo ai giornali».

    E i giornalisti sovietici fecero qualcosa per sapere la verità, senza aspettare i comunicati ufficiali?
    «La nostra unica preoccupazione, in quei momenti, fu di evitare il panico. Le misure di isolamento dell’area erano doverose e tutti gli sforzi furono concentrati nelle operazioni di salvataggio. Almeno un milione di persone erano in pericolo. Non posso dire che tutto andò bene, niente affatto, ma il problema principale non fu quello di nascondere la verità. E poi, negli Usa vi fu un incidente analogo a Three Miles Island, e nessuno ne seppe niente fino a che le autorità decisero di rendere nota la cosa. E in Francia non si sono ancora spente le polemiche perché il governo aveva dato disposizione di minimizzare gli effetti della nube radioattiva per evitare che fossero messe in discussione le centrali francesi. La glasnost non trionfava ovunque».

    In Russia si accese il dibattito e nacquero i primi gruppi ecologisti. Cosa ricorda?
    «Ci fu una discussione, anche questa largamente pubblica, sulla necessità di liberarci dei reattori del tipo RBMK. Emersero gravi errori nella dislocazione territoriale delle centrali. Il 3 luglio il Politburò decise di interrompere la costruzione di nuovi reattori e di chiudere la centrale atomica in Armenia, che veniva costruita in territorio sismico. Tutto questo avvenne non nel chiuso delle stanze del Cremino ma sui giornali e in tv».

    Vent’anni dopo le sue idee sull’atomo pacifico e su quello militare sono cambiate?
    «Niente affatto. Anzi l’inquietudine è cresciuta. Il processo di disarmo nucleare, e chimico, si è interrotto. La modernizzazione delle armi nucleari è in grande sviluppo. Il principio di non proliferazione viene rimesso in discussione e il club delle maggiori potenze non ha fatto nulla per ridurre la sua superiorità nucleare. Adesso ci sono trenta paesi in grado di produrre armi nucleari. Gli Stati Uniti progettano la militarizzazione atomica dello spazio cosmico. E Usa e Francia hanno recentemente dichiarato di considerare ammissibile un colpo nucleare preventivo. Sono gravissimi passi indietro, dichiarazioni che definirei mostruose».

    E il dibattito sulla rinuncia al nucleare pacifico?
    «Quella pagina, scritta sull’impeto dell’emozione, è già stata girata. Oggi il problema dell’energia è divenuto così acuto che molti tornano a considerare necessarie, anzi indispensabili, le centrali atomiche. Dovunque, per altro. In Russia si progetta di costruire altri 40 reattori. Gli Stati Uniti non hanno mai smesso di costruirli, come pure la Francia e la Gran Bretagna, la Cina e l’India. Sarebbe meglio non farlo. Credo che sia il problema più grande che ha di fronte l’umanità».nsiderare ammissibile un colpo nucleare preventivo. Sono gravissimi passi indietro, dichiarazioni che definirei mostruose».

    E il dibattito sulla rinuncia al nucleare pacifico?
    «Quella pagina, scritta sull’impeto dell’emozione, è già stata girata. Oggi il problema dell’energia è divenuto così acuto che molti tornano a considerare necessarie, anzi indispensabili, le centrali atomiche. Dovunque, per altro. In Russia si progetta di costruire altri 40 reattori. Gli Stati Uniti non hanno mai smesso di costruirli, come pure la Francia e la Gran Bretagna, la Cina e l’India. Sarebbe meglio non farlo. Credo che sia il problema più grande che ha di fronte l’umanità».rogettano la militarizzazione atomica dello spazio cosmico. E Usa e Francia hanno recentemente dichiarato di considerare ammissibile un colpo nucleare preventivo. Sono gravissimi passi indietro, dichiarazioni che definirei mostruose».

    E il dibattito sulla rinuncia al nucleare pacifico?
    «Quella pagina, scritta sull’impeto dell’emozione, è già stata girata. Oggi il problema dell’energia è divenuto così acuto che molti tornano a considerare necessarie, anzi indispensabili, le centrali atomiche. Dovunque, per altro. In Russia si progetta di costruire altri 40 reattori. Gli Stati Uniti non hanno mai smesso di costruirli, come pure la Francia e la Gran Bretagna, la Cina e l’India. Sarebbe meglio non farlo. Credo che sia il problema più grande che ha di fronte l’umanità».

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