Beni culturali. Sì al riconoscimento, ma non per tutti

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    Approvata alla Camera dei Deputati la modifica al Codice dei Beni culturali per il riconoscimento professionale. Restano esclusi gli economisti della cultura che lanciano la campagna #ProfessioneCulturalManager appellandosi al Senato (di Ivana Vacca) Un passaggio epocale, allegro, ma non troppo, quello dello scorso mercoledì per il riconoscimento dei professionisti che operano in ambito culturale. Dalla passata legislatura la proposta di Marianna Madia comincia il suo iter legis. Si tratta della proposta di legge n. 362-A, che intende disciplinare le professioni culturali, prevedendo modifiche al Codice dei beni culturali e del paesaggio. La proposta, presentata su iniziativa degli On. Madia, Ghizzoni, Orfini, Bossa e Narduolo, lungamente analizzata in Commissione Cultura, è stata approvata mercoledì 15 gennaio (quasi) all’unanimità, ad eccezione dell’astensione del gruppo Fratelli d’Italia e si avvia ora ad essere ridiscussa in Senato. Il provvedimento ha cercato di sanare un vuoto normativo fornendo un giusto, seppur parziale, riconoscimento a migliaia di operatori che lavorano nella cultura, oltre che assicurare una maggiore garanzia ai fruitori/consumatori culturali. Esso, inoltre, in linea con le disposizioni europee in materia di liberalizzazione delle professioni e circolazione dei cittadini, interviene nell’ambito della disciplina delle professioni non organizzate in ordini o collegi, di recente, peraltro, affrontata dalla legge n. 4 del 14 gennaio 2013. Archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi fisici, esperti di diagnostica e di scienze e tecnologia applicate ai beni culturali e storici dell’arte verranno inseriti all’interno del Codice aggiungendosi ai già disciplinati restauratori di beni culturali e collaboratori restauratori di beni culturali. Secondo quanto normato saranno affidati alla loro responsabilità ed attuazione, in base ad ogni specifica competenza, “gli interventi operativi di tutela, protezione e conservazione dei beni culturali, nonché quelli relativi alla valorizzazione e alla fruizione dei beni stessi”. Non saranno creati nuovi albi professionali, come ribadito nel comma 5 introdotto in exremis con l’emendamento del M5S nel corso dell’ultima seduta alla Camera. Verranno invece istituiti, presso il Mibact, dei registri nazionali, mediante un decreto che verrà emanato entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge. Alla loro formulazione, nonché alla definizione dei requisiti necessari, collaboreranno anche le associazioni professionali maggiormente rappresentative delle professioni interessate. Gli elenchi dei professionisti, in “possesso di adeguata formazione ed esperienza professionale”, saranno un strumento meramente ricognitivo. Per poter svolgere la professione non sarà, infatti, obbligatoria l’iscrizione ad una associazione professionale. La norma tutelerà, quindi, le figure più tradizionali dei beni culturali in una direzione che non si incrocia con le sfide globali del settore e con il riordino della formazione universitaria. Restano esclusi, infatti, gli economisti della cultura, anche detti cultural manager: una categoria di lavoratori potenzialmente trainante per il nostro paese, ma finora scarsamente valorizzata nel suo complesso. Sono sette in Italia le Università che hanno attivato corsi di laurea magistrale in Scienze Economiche per l’Ambiente e la Cultura (LM/76 e LS/83) e formato migliaia di professionisti senza adeguato riconoscimento professionale. La legittima richiesta di riconoscimento ora passa dagli archeologi ai manager culturali, i quali, unitisi in un coordinamento nazionale, hanno lanciato una campagna dal titolo #ProfessioneCulturalManager allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica anche sul proprio status. Obiettivo ultimo: far esaminare e approvare in Senato il loro emendamento integrativo alla proposta di legge Madia. Una figura, quella dell’economista della cultura, che subisce ancora oggi un ostracismo frutto di un pregiudizio ideologico. Eppure la dinamicità dei tempi, i nuovi stili di vita, la complessità del sistema cultura, la velocità con cui si muovono la tecnologia e i relativi sistemi di comunicazione dovrebbero comportare il superamento degli schemi tradizionali in quanto a valorizzazione culturale e fruizione. E’ per questo che oggi non si dovrebbe prescindere dal considerare tali figure come complementari a quelle che si stanno per riconoscere. Oggi anche la presentazione del nuovo Rapporto Annuale Federculture alla Camera ha dimostrato come i tagli alla cultura sono il frutto di precise scelte politiche, così come una scelta politica sarebbe quella di voler perseverare nell’errore non attuando un decisivo e strategico cambio di passo. Il Governo italiano dovrebbe pensare ad investire in cultura, cominciando a valorizzarne le risorse umane, dovrebbe considerare un rilancio dell’occupazione culturale, anche in funzione anticongiunturale. Ma per far questo, per davvero, serve capire che cultura e sviluppo economico, fino ad oggi viste come realtà distinte, sono parte dello stesso progetto e non possono essere considerate separatamente pena la perdita di opportunità che, al contrario, vanno colte subito. Fino ad oggi quello che il Parlamento ha sbandierato come rilancio, al fine di favorire l’occupazione dei professionisti culturali, non è altro che una luce, fioca, che penetra attraverso un vetro scurito dalla polvere. Articolo tratto da ServizioCivileMagazine del 20 gennaio 2014: http://www.serviziocivilemagazine.it/index.php?option=com_content&view=article&id=5000:beni-culturali-si-al-riconoscimento-ma-non-per-tutti&catid=43:cultura&Itemid=136

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