La scuola italiana nelle corde di Alberto Gazale

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Trionfa lo Jago del baritono sassarese insieme alle intuizioni del regista Tiziano Mancini. Francesco Ivan Ciampa ancora acerbo per Otello

Di OLGA CHIEFFI

Daniel Oren ha giocato al buio, nei panni di direttore artistico, con l’Otello di Giuseppe Verdi. Scelta eccelsa ma non da affidare ad un direttore troppo giovane e acerbo, quale è Francesco Ivan Ciampa, per una summa compositiva quale è quest’opera, per di più con uno Jago problematico quale quello di Renato Bruson, il quale con voce malferma ha compromesso le prove e la prima, scatenando una vera bufera sul massimo cittadino. Fuori lo Jago di Bruson, protestato non dalla direzione artistica, dagli orchestrali o dal maestro Ciampa, bensì dal pubblico, la parte del grande “tessitore” è andata ad un brillantissimo Alberto Gazale. Il baritono sassarese che abbiamo già applaudito nei ruoli di Belcore, Alfio e Gianciotto, ha aggiunto un altro personaggio esemplare al suo carnet salernitano, Jago. Un sigillo musicale di elevato livello, quello apposto dal nostro Alberto Gazale, anche se si è tirato fuori dalla trama severa dello spettacolo perfettamente concepita dal regista Tiziano Mancini, schizzando un alfiere in alcuni tratti quasi gigioneggiante, concedendosi a facili effetti melodrammatici, mostrando una certa compattezza espositiva esclusivamente nel nichilistico “Credo”, con il mareggiante giuramento insieme con Otello, alla fine del second’atto.  Incantevole anche il racconto del finto sogno di Cassio, finemente eseguito a mezza voce, poi sottovoce parlato, in ossequio ai segni in partitura di “legato” e “staccato” di sottilissima e consapevole intenzionalità. Gregory Kunde possiede la giusta vocalità nel registro medio acuto per tratteggiare la terribile bestia feroce, un po’ in gola, invece nei gravi che descrivono l’aspetto del moro alla ricerca della propria identità, esemplare fraterno della crisi esistenziale contemporanea, che il regista ha voluto sottolineare ispirandosi alla celebre xilografia di Escher  Relatività, del 1953, per la costruzione e la divisione dello spazio scenico. Un ambiente, quello di Mancini, ben coadiuvato da Flavio Arbetti, dalla costumista Manuela Gasparoni e dal light designer Marco Giusti, in cui lo spazio viene prima di tutto vissuto dai personaggi e sono loro, con l’impressione del movimento e dell’azione, che danno l’idea del punto di fuga, della prospettiva, o meglio, della molteplicità delle prospettive. Ci perdiamo in un mondo in cui tutto è relativo, ovvero non esiste un unico punto di vista, non esiste la ragione o il torto, esistono le ragioni di ognuno, la vita di ognuno, che non si incontrano, non si capiscono, sono semplicemente differenti. In terra la luce del Trionfo della Fortezza e della Sapienza di Giovanbattista Tiepolo fa da contraltare alle ombre della costruzione escheriana. Su questo cielo capovolto si inginocchia Dimitra Theodossiou per elevare la celebrata canzone del salice, introdotta dal corno inglese, e l’Ave Maria. Sciolta, libera, donna senz’altra dolcezza (non sdolcinatezza) dell’essere donna e dell’amare, retta e diretta nell’offrire una Desdemona verdianamente intensa, nobile e sincera senz’artificio, nel canto sapiente. Essenziale il canto che sa materializzare anche il silenzio, rubando pause all’inarrestabile scorrere della tragedia. Orchestra altalenante tra momenti di convincente livello, quali la tempesta o il finale con il mesto canto del fagotto, elevato da Antonello Iannone eccessi degli ottoni e imprecisioni degli archi, per un’orchestra che fatti salvi strumentini e percussioni sta ritornando quella antecedente alle “epurazioni” oreniane. Menzione anche per la chitarra di Antonio Grande e il mandolino di Michele De Martino che hanno accompagnato l’aria della mandola, illeggiadrito dalle voci bianche preparate da Silvana Noschese. Dignitoso il coro guidato da Marco Faelli, al di là di incomprensioni buca palcoscenico nella sortita e nel “Dove guardi splendono/Raggi avvampan cuori” così come la performance di tutti i comprimari su cui spicca la voce distesa e solare del tenore Domenico Menini che ha interpretato Cassio. Stasera, alle ore 21, l’ultima replica.

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