LA SCUOLA DI RESINA * La Repubblica della Luce (di Ercolanensis) FOTO foto

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     Nel 1863, su iniziativa di una generazione di brillanti artisti, ad Ercolano, allora chiamata Resina, nasceva l’omonima Scuola, conosciuta anche come “Repubblica di Portici”, indirizzata sul tema del verismo e produttrice di opere di straordinaria bellezza.
    Insieme alla Scuola di Posillipo, la Scuola di Resina è la massima rappresentante della pittura di paesaggio della Napoli dell’Ottocento. Ancora oggi restano dubbi su quali e quanti artisti abbiano fatto parte di questo movimento artistico, le tesi a tal proposito sono discordanti: da chi come il De Rinaldis  la vorrebbe ridurre solo ai grandi nomi e chi come Emilio Lavagnino la vorrebbe allargare anche agli artisti vicini al movimento macchiaiolo e sulla linea dei porticesi. Con sicurezza possiamo affermare che quattro furono gli artisti della prima ora fondatori della rinomata Scuola. Marco De Gregorio, il più anziano ed unico originario di Resina, fu raggiunto poi da Federico Rossano nel 1858. Giuseppe De Nittis, di origine pugliese, sarà il più famoso anche all’estero, e nel 1867 si trasferì a Parigi. Infine, Adriano Cecioni, di origini toscane.
    Come conferma anche Salvatore di Giacomo, il sodalizio storico avvenne a Resina nel dismesso palazzo Reale di Portici, l’antica residenza borbonica immersa nel verde, dove Marco De Gregorio aveva il suo studio. Luogo di incontro dei quattro e punto di sutura fra Resina e Portici. Da lì partivano per scampagnate alla ricerca di luoghi bucolici, scorci di sottobosco, stralci di vita e panorami da ritrarre; dal Vesuvio alla costa, fino a spingersi nelle isole del Golfo.
    “Così ogni mattina prima dell’alba, uscivo di casa e correvo a cercare i miei compagni pittori, molto più grandi di me, Rossano e Marco De Gregorio. Partivamo tutti insieme. Io non avevo soldi e loro erano tutt’altro che ricchi, ma ci arrangiavamo mettendo in comune i loro pochi quattrini e raramente, i miei pasti erano irregolari e molto frugali. Al mio paese si è molto sobri ed io lo sono stato fino all’inverosimile. Quante volte ho mangiato solo peperoni ed insalata! Che bei tempi! Con tanta libertà, tanta aria libera tante corse senza fine! E il mare, il gran cielo e i vasti orizzonti! Lontano le isole di Ischia e di Procida; Sorrento e Castellammare in una nebbia rosea che a poco a poco veniva dissolta dal sole… A volte, felice, restavo sotto gli improvvisi acquazzoni. Perché credetemi io l’atmosfera la conosco bene; e l’ho dipinta tante volte. Conosco tutti i segreti dell’aria e del cielo nella loro intima natura.”
    È impressionante la semplicità con cui De Nittis descrive quei “giorni felici”, giornate spensierate trascorse insieme ai suoi compagni, godendo di quelle escursioni nei dintorni della città che gli trasmettevano un senso di libertà. È straordinaria poi la capacità di riprodurre su tela e su tavola tutte le atmosfere temperate di luce e colore meridionale. È il gioco di luce che caratterizza i quadri della Scuola di Resina, Lo sguardo di un neofita viene subito attratto dalla luminosità che emanano questi dipinti; quei paesaggi sprigionano uno splendore che li rende unici. I dipinti ritraggono spesse volte luoghi comuni, mete di scampagnate e riflessioni dove sorprende una concezione moderna della luce. Esempi sono: Appuntamento nel Bosco di Portici, (Viareggio, Istituto Matteucci ) del De Nittis, e il quadro Nel Bosco di Portici, del 1875, di Marco De Gregorio.
    La luce filtra dagli alberi e illumina a chiazze il terreno, creando un gioco di riflessi e di un caldo colore ottenuto dall’impasto con la biacca. Adriano Cecioni parlava, con riguardo al quadro del De Gregorio, di “ragionamento” della luce, trovandosi in esso qualcosa che nessun artista prima aveva mai realizzato: l’intuizione di rappresentare la luminosità filtrata da una chioma di alberi fronzuti.
    Si riscontrano, poi, con la Scuola, delle connessioni con il movimento dei  Macchiaioli, nato a Firenze, proprio sul modo di intendere la pittura. L’importanza della luce nei quadri, l’abitudine di dipingere all’aperto, sono le stesse caratteristiche che troviamo nella Scuola di Resina. Il movimento Toscano si era formato a Firenze nel 1856 nella saletta del Caffè Michelangelo dove giovani artisti si scambiavano le proprie idee, spesso fuori da ogni regola scolastica e accademica. A Portici qualche anno dopo avveniva lo stesso al Caffè Simonetti dove Marco De Gregorio, Giuseppe De Nittis, Adriano Cecioni, Federico Rossano ed altri loro seguaci si legavano ad un giuramento di fratellanza ed ad un programma artistico nato dalle lunghe riflessioni fatte seduti a quei tavolini della Portici dell’Ottocento. Il movimento dei Macchiaioli affermava che la forma non esiste, ma è creata dalla luce, come macchie di colore distinte e sovrapposte su altre macchie di colore, perché la luce, colpendo gli oggetti viene rinviata al nostro occhio come colore. In comune inoltre, i due movimenti artistici avevano un loro grande esponente: Adriano Cecioni, che se per la Scuola di Resina si può definire un fondatore, per il movimento Macchiaiolo insieme a Diego Martinelli era di sicuro uno dei suoi massimi critici e teorici, che dettava le regole basilari dello “stile”.
     I soggetti protagonisti dei loro quadri sono un altro elemento che lega i due movimenti. I temi ricorrenti sono prevalentemente rurali e la fascia sociale a cui si ispirano è quasi sempre quella più povera.
    La Scuola di Resina ci restituisce un panorama geografico e antropologico delle terre del mezzogiorno, un Meridione con le sue campagne, i suoi abitanti e i suoi casali fino ad allora mai conosciuto dal resto del Paese. Nei loro quadri catturano scene di vita vissute, strappano pezzi del quotidiano di alcune fasce sociali immortalandoli e donandogli vitalità e realismo attraverso la raffinata elaborazione dei colori vivi come i personaggi che ne fanno parte. Un cromatismo solido e intenso si riscontra ad esempio nel quadro di Marco De Gregorio: Ritorno sui Campi. Dove la pittura si veste di una particolare forma di realismo rude e sincero. Gli abitanti, i pescatori, i contadini, i mezzadri, le gentildonne e gli scugnizzi sono abbigliati con indumenti che contraddistinguono il loro ruolo sociale. Lo stesso realismo lo ritroviamo in tutte le opere dei maestri comprimari come nella Fiera dei Buoi a Capodichino di Federico Rossano dove elementi naturali come i ciuffetti d’erba, i sassolini ai lati del sentiero e gli abiti degli allevatori insieme agli effetti di ombra e di luce che penetra attraverso gli alberi, sono caratteristici del miglior linguaggio pittorico porticese. Oltre gli artisti fondatori di cui abbiamo parlato si aggiunsero alla Scuola molti seguaci, Salvatore Di Giacomo affermò che altri pittori potevano essere definiti maestri comprimari: Raffaele Belliazzi, Michele Tedesco e Camillo Amato. Altri seguaci ancora sappiamo che si unirono in seguito al movimento: Francesco Netti, Achille Vertunni, Federico Cortese, Eduardo Dalbono, Antonino Leto, Giuseppe Laezza, Alfonso Simonetti ed Eduardo Monteforte. Questi altri artisti seppero fare propria l’eredità della luce lasciatagli dai maestri comprimari. Un esempio è il dipinto di Alfonso Simonetti: studio di case coloniche. Dove ogni minimo e apparente dettaglio insignificante è descritto con magistrale arte e sensibilità pittorica: le piante fiorite sui tetti, la pertica sospesa tra un edificio e l’altro per farvi asciugare sopra dei panni, gli alberi che spuntano al di là di mura diroccate, un carretto adagiato, l’ombra degli alberi sull’asfalto. Tutto dipinto attraverso quel gioco di luce già noto nei dipinti dei maestri comprimari e rielaborato raffinandolo per dare vitalità  ed immortalare una scena di vita quotidiana. La stessa vitalità che ritroviamo nell’opera di Montefusco: Il Mezzodì di Luglio. 
     Il punto di incontro e di scambio di idee come abbiamo già detto era l’Antico Caffè Simonetti di Portici il loro intento era quello di “esercitare un’arte indipendente, puramente veristica e realista tendente alla vera manifestazione semplice del vero nelle sue svariate forme senza orpello e tradizione”. La colonia si reggeva con un governo rappresentativo, decideva su di ogni questione come il voto della maggioranza ed aveva eletto all’unanimità Raffaele Belliazzi presidente. Lo statuto della colonia era semplicissimo: protezione del compagno d’arte sempre, in vita o in morte, dovunque si trovasse.
    La compagnia si scioglie nel 1874 anno del ritorno definitivo del De Nittis a Parigi. Il De Nittis così diviene ambasciatore ufficiale all’estero della Scuola di Resina, a Parigi viene molto apprezzato dai militanti del movimento Impressionista. Gli impressionisti avevano in comune con gli artisti porticesi la riscoperta della pittura di paesaggio, il mito dell’artista ribelle alle convenzioni. Essi dipingevano en plein air con una tecnica rapida che permetteva di completare l’opera in poche ore. Sebbene ponessero la loro attenzione sui paesaggi in determinati momenti del giorno con condizioni di luce diverse, fu proprio quel gioco di luce prerogativa delle Scuola di Resina, che non riuscirono mai veramente a riprodurre a fare la differenza. Nei loro quadri per quanto realisti ed innovativi, nonostante l’attenzione sui paesaggi in determinati momenti del giorno con condizioni di luce diverse, difficilmente si può ritrovare quell’effetto ottico, quel gioco di luce, che accende i dipinti napoletani, filtrando dagli alberi, esplodendo sui muri degli edifici o rendendo magici i contorni di persone e cose.
    Per questo oggi la Scuola di Resina, che trovò i suoi natali tra la città della Reggia e quella confinante di Resina, possiamo ribattezzarla senza alcuna remora: Scuola di Luce.                                                                                                                                                                                                                                             

    La verità che splende nel sole del Sud di Mariano Altieri                                    

    “Una camerata di radicali in arte, che nessuna autorità riconoscendo, disprezzando tutto quanto poteva procurar loro benessere, con le concessioni fatte alla moda, si deliziarono delle intime soddisfazioni che procura ai veri artisti, in comunione d’idee, la osservazione attenta della natura, il fantasticare quotidiano e continuo su tutti gli effetti e su tutte le forme dell’avvicendarsi continuo delle immagini della vita”. Così il critico d’arte Diego Martelli, sostenitore in Italia degli impressionisti e dei macchiaioli, definì gli artisti della Scuola di Resina.
    Nell’Italia appena assemblata col grossolano filo di sutura del centralismo piemontese, gonfia di retorica e ipocrisia, questa comunità di giovani intransigenti persegue la causa del vero con fedeltà incrollabile. Con una caparbietà che rivela l’avversione a una cultura ufficiale sentita come superficiale e falsa.
    E non si tratta, come per i primi impressionisti, solo di fermare sulla tela sensazioni visive fuggevoli senza lasciarsi influenzare da preconcetti o consuetudini tecniche. I ragazzi di Resina cercano una verità più completa, non solo intercettando e riproducendo nella loro realtà note cromatiche e luminose, ma anche captando l’atmosfera dei luoghi, la loro musica segreta, che dipende da quello che essi rappresentano, non nell’opinione corrente, ma nella percezione profonda dell’osservatore. Una pittura, quindi, che per realizzarsi non richiede soltanto sensibilità alle forme e ai colori, ma un’attitudine a interrogarsi e a interrogare, per restituire la verità profonda delle cose.
    Qualcosa di analogo a quello che tenterà Paul Cézanne, il quale però, impossessatosi delle innovazioni tecniche dell’Impressionismo, fissa la sua spasmodica attenzione alla scoperta delle «strutture profonde dell’essere», attraverso «una ricerca ontologica, una sorta di filosofia».
    Sulle tele di Resina, invece, se non troviamo il soave incantesimo che scocca dalla irripetibile leggerezza di certi paesaggi di Monet o di Renoir, nemmeno avvertiamo la solenne incombenza di un  progetto cerebrale.
    Si tocca, piuttosto, la commovente evidenza di un momento di vita, che non si ferma alla superficie dell’impressione luminosa, ma trova la sua verità nel percorso che intelletto e sentimento fanno attraverso il significato e la storia degli enti rappresentati. Un percorso che da soggettivo ambisce a divenire oggettivo, quasi per una forma di magnanimo rispetto per gli oggetti raffigurati, senza alcuna gerarchia fra loro. Quanto senno avevano, questi giovani scapestrati!
    La loro disciplina interiore, votata unicamente al vero, rifugge perfino dal dare troppo risalto al disegno – a differenza dei ben più celebrati Macchiaioli coerenti alla tradizione toscana – per non rischiare di alterare la germinazione del vero inserendovi a forza un tributo alla sapienza delle linee o all’ortodossia prospettica.
    Una premurosa delicatezza che sa diventare, però, inflessibile rigore quando si tratta di attribuire a un elemento dell’insieme la  giusta consistenza visiva, senza riguardi per le convenzioni mentali e sociali.
    Tutto questo rispecchia con splendida semplicità la filosofia di vita e la visione del mondo dei popoli delle Due Sicilie. Il loro amore per la vita, la loro percezione diuna natura animata, della quale siamo tutti espressione, la loro fedeltà alla concretezza dell’esistente, il loro rifiuto dell’astrattezza  giacobina di chi pretende di rivoltare la società in ossequio ad astruse e unilaterali teorie.
    Un amore per il vero che si riscontra fin dalle stupefacenti pitture pompeiane, che attraversa la pittura del secolo d’oro di Napoli (lo stupefacente ’600 di Caravaggio, Ribera e Ruoppolo), che permea il pensiero di Giambattista Vico. Lo ritroviamo nelle stradine assolate di Capri dipinte da Rubens Santoro, dove la verità irresistibile della luce abbatte ogni barriera mentale e risucchia l’osservatore in un’evidenza senza tempo, in un sogno sconvolgente per il suo realismo. Ma un sogno delicato, in cui a ogni cosa, grande e piccola, è assegnato un posto congruo e degno. E dove le ombre sono colorate e trasparenti come nei coevi capolavori d’Oltralpe.
    Oppure nel cortile inondato di luce dipinto da Giuseppe De Nittis, in cui siamo introdotti dalla grande porta solenne e riguardosa e dove appare controluce la figura abbozzata di un bambino, fugace come un’immagine sovrapposta, proveniente dall’indiscutibile realismo della memoria. Tutto è vivo ma sospeso, tutto restituisce la dignità della vita rurale e il palpabile enigma dell’esistenza. Vengono in mente la piazza di De Chirico (L’enigma dell’ora) e il verso di Pound: “L’enorme mistero del sogno sulle spalle curve del contadino”. Il tutto, però, attraverso l’evidenza scarna e assolutamente riconoscibile di un piccolo angolo di campagna.
    Nel più riposante Mezzodì di luglio, di Eduardo Monteforte, lo splendore confortante di una giornata serena raccoglie e accomuna uomini, animali e cose, come un affettuoso e malinconico abbraccio, in un breve momento di passaggio, che sembra voler durare in eterno, ma porta in sé il timore, o il presagio, di un cambiamento. Nell’armonia dell’arte si crea, dunque, una commistione fra sentimenti opposti, che è così napoletana, anzi, così magno-greca!
    Nelle opere degli innovatori di Resina , spregiatori dell’Accademia, risplende, quindi, la tradizione, che affiora libera e nobile, accesa dal sole. Un sole mediterraneo che nessuno ha mai reso così. Possa questo stesso sole  trafiggere anche le ombre di una barbarie celata dai fuochi fatui della modernità.

     

    L’Alfiere, Pubblicazione Napoletana tradizionalista

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

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