Quando due donne si amano: la vita di Adele

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     Conoscendo l’esilità del soggetto e contando sull’assenza di un produttore da presa, Monsieur Kechiche lo ha dilatato (tre ore di durata), puntellato, imbandito e posizionato affinché svettasse al festival di Cannes: al momento dell’annuncio della Palma d’oro a «La vita di Adele», infatti, il regista franco-tunisino ha pianto, ma avrebbe pianto ancora di più di rabbia se non gliel’avessero data. A scongiurare, del resto, che la storia della passione tra due ragazze del profondo Nord potesse perdersi nel buco nero dei cinéfili, si dava il caso che nelle stesse ore a Parigi un milione di persone fossero scese in piazza contro l’introduzione delle nozze gay: è così strano ipotizzare che il film, con buona pace delle ragioni dell’arte, abbia funzionato da replica provocatoria alla cronaca ovvero come manifesto poetico-politico? Trascurando la premessa con promessa (di dibattito), resta la trama: delusa dall’esperienza con un maschio, la famelica e torpida liceale Adéle (Exarchopoulos) è rimessa sulla retta strada dall’incontro con Emma (Seydoux) i cui capelli blu servono a identificarla d’acchito come bohémienne mascolina, vagamente acculturata e mosca da bar. La cadetta beve le sue parole a bocca aperta (dettaglio anche in seguito evidenziato da continui e ammiccanti primi piani), poi subentrano l’infatuazione, il desiderio e il sesso. La macchina da presa marca stretto i corpi avvinghiati negli ultrarealistici spasimi che non si possono definire voyeuristici per la nobiltà della causa, ancorché sconfessati da Julie Maroh, autrice del graphic novel originario «Le bleu est une couleur chaude»: «un’esposizione brutale e chirurgica, eccessiva e fredda, del cosiddetto sesso lesbico che diventa porno e mi fa star male». Entra in campo, va da sé, anche la lotta di classe: i proletari si abbuffano di spaghetti al sugo, i borghesi preferiscono le ostriche (la regia ci tiene a far sapere che devono essere vive al momento d’ingollarle). Alla fine Adèle, passati gli strepiti, i pianti, gli impulsi debordanti, è diventata una maestra conformata e rassegnata, mentre Emma no, non sarà mai una Bovary, per lei la vita è quella della penna o del pennello oppure non è tale. Insomma «La vita di Adele» è all’altezza solo a sprazzi del suo beatificato calore emotivo e sensuale (congeniale alla sexy bambinona dalle schiocche rosse e il moccio al naso, mentre la Seydoux non a caso l’ha quasi rinnegato) e più spesso appare dilungato e ripetitivo, vittima di un naturalismo sgraziato e un’ingordigia di «quotidiano» che venivano meglio al rude connazionale Pialat. Tutto risponde alle clausole e ai refrain prefissati dal talento di un regista narcisista e manipolatore. Proviamo a sostituire idealmente le sue eroine con un uomo e una donna e ci resterà ben poco in mano. Valerio Caprara Il Mattino

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