Napoli, 40 anni fa l´incubo del colera

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25/8/13 Napoli, 40 anni fa l’incubo del colera

Tarro: ora l’emergenza è quella dei tumori da inquinamento VIDEO

24 agosto, 19:06

di Enzo La Penna

Quando tutto fu finito si disse che l’epidemia aveva provocato la morte di 12 o al massimo 24 persone, mentre i ricoveri in ospedale erano stati quasi mille. Un bilancio preciso manca e, in ogni caso, i numeri non appaiono certo quelli di una catastrofe. Tuttavia in quella fine estate del 1973 a spedire all’improvviso Napoli indietro nel tempo e lontano dal mondo sviluppato bastò una sola parola, evocatrice di paure ancestrali: colera.

Si’, perché un secolo prima due volte la città era stata aggredita dal morbo e i morti allora erano stati migliaia: due tragedie così devastanti da portare a una rivoluzione urbanistica, con la decisione di sventrare un intero quartiere degradato adottata dalle autorità sull’onda di un formidabile j’accuse di Matilde Serao. Ma nel 1973, in piena era di progresso tecnologico e scientifico e nel cuore dell’Occidente avanzato, neppure un fantasioso autore di film catastrofisti avrebbe immaginato la trama di una città e del suo hinterland, tra le più densamente popolate dell’Europa, in balia di un male che si riteneva sopravvivesse ormai soltanto in angoli remoti della terra segnati da miseria e sottosviluppo.

Tutto ebbe inizio il 24 agosto quando a Torre del Greco (la città alle falde del Vesuvio dove Giacomo Leopardi morì nel 1837 proprio di colera) si registrarono due casi di “gastroenterite acuta”. Fu nei giorni successivi, quando all’ospedale Cotugno si presentarono altri casi di ammalati con gli stessi sintomi (diarrea, vomito, crampi alle gambe) che vennero fugati i residui dubbi. Da quel momento il colera a Napoli non fu più solo la storia di una malattia contagiosa e degli interventi per debellarla, ma soprattutto il racconto della paura che si impossessa della gente, della psicosi che induce a comportamenti spesso irrazionali e dell’immagine stravolta di una città che sarebbe pesata negli anni successivi.

Chi è stato testimone di quei giorni ha vivo il ricordo di momenti ora drammatici ora grotteschi, immortalati talvolta nelle foto e nelle riprese tv di reporter piombati a Napoli da tutto il mondo. Come la file chilometriche per le vaccinazioni somministrate dai militari americani muniti di pistole-siringa, scene che somigliavano a quelle vissute nel ’43, quando nella Napoli devastata dalla guerra che qui era appena finita i soldati a stelle e strisce spruzzavano il Ddt per scongiurare l’estendersi della epidemia di tifo.

E ancora: i familiari degli ammalati accalcati davanti ai cancelli del Cotugno in attesa dei bollettini medici. Tra i casi di psicosi collettiva si ricorda quello di un un uomo che, dopo essere inciampato, si stava rialzando allorché i passanti, vendendolo barcollare, si allontanarono urlando ”tene ‘o colera, tene ‘o colera!!”.

Il responsabile dell’infezione venne individuato nel consumo di cozze all’interno delle quali si annidava il vibrione (poi si stabilirà che non si trattava di quelle coltivate nel Golfo di Napoli ma di una partita importata dalla Tunisia). Cominciò allora la guerra ai mitili, di cui venne vietata la coltivazione e il consumo, una decisione scontata e indispensabile che tuttavia determinò la protesta accesa di quanti vivevano di quel commercio.

Ci fu anche chi, per ostentare ardimento e sprezzo del pericolo, pensò bene di farsi riprendere mentre si ingozzava di cozze crude. Ardimento e sprezzo come quello degli scugnizzi che, subito dopo essersi vaccinati, correvano a tuffarsi nelle acque limacciose e malsane di via Caracciolo. Furono adottate numerose misure di profilassi.

”Allora si capì il valore della prevenzione”, spiega il professor Giulio Tarro, virologo di fama mondiale, in quei giorni in prima linea, che isolò il vibrione. Cambiarono anche le abitudini alimentari: Molti ricorsero però a misure assolutamente empiriche. Gran parte dei napoletani, senza alcuna ragione plausibile se non una paura immotivata, non bevvero più acqua dal rubinetto. E si sparse inoltre la voce che i limoni rappresentassero un ottimo sistema per prevenire l’infezione: così in pochi giorni il prezzo salì alle stelle e ciò nonostante divennero introvabili. Fu il colera comunque a far aprire gli occhi su una serie problemi che preesistevano all’epidemia ma che fino ad allora erano come rimossi dalla coscienza collettiva: quartieri degradati, in città come in provincia, condizioni igieniche da terzo mondo, un mare inquinatissimo e un sistema fognario vecchio di secoli inadeguato alle esigenze imposte da una crescita urbanistica spaventosa e incontrollata. ”Quell’esperienza fu superata – dice il professore Tarro – ora le emergenze sono altre e per affrontarle ci vorrebbe lo stesso impegno. Penso all’inquinamento che è causa dei tumori”.

 

ANSA 24 agosto, 19:06

 

Inserito da Alberto Del Grosso alle 02:00 del 25 agosto 13

 

 

 

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