Il doppio volto di Rigoletto

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Questa sera, alle ore 21, il sipario del massimo cittadino si leverà sul primo dei titoli della trilogia verdiana, affidato alla voce di Leo Nucci e alla bacchetta di Daniel Oren

 

 

 

Di OLGA CHIEFFI

 

Rigoletto è un’opera piena di vita ma colma di ferite, di piaghe segrete che sono di certo anche quelle di Verdi stesso. Dietro l’apparenza rutilante dell’opera c’è una sorta di intimissima danza mortuaria. «Una terza bara esce da casa mia» scriveva il vecchio Verdi evocando molti anni più tardi le morti precoci e consecutive della giovane sposa e dei due figli. L’immagine è sorprendente. Lavorando sulla malinconia del personaggio di Rigoletto piuttosto che sulla sua arroganza, sulla sua fragilità segreta piuttosto che sul suo astio scoperto, si sente ciò che Verdi vi ha proiettato di sé stesso, l’abisso pronto ad aprirsi improvvisamente sotto i piedi e le contorsioni della sua coscienza per restare in piedi o integro. In sintonia con la doppia vita del suo personaggio eponimo, Rigoletto è un’opera con un dritto e un rovescio, un costume di scena e un abito da città: il dramma comincia quando i campi d’azione si mescolano, quando cede il compartimento stagno che separa la vita pubblica da quella privata. Daniel Oren, torna a Salerno, sul podio, alla guida dell’ Orchestra Filarmonica Salernitana, per inaugurare ufficialmente la stagione con questo titolo, che ha affidato alla regia di Lorenzo Amato, il quale avrà a disposizione l’arte musicale e scenica di protagonisti della scena lirica internazionale del calibro di Leo Nucci, che vestirà i panni del protagonista, ben due  eccelse voci di soprano che si alterneranno nel ruolo di Gilda, quali Patrizia Ciofi e Desirée Rancatore e un Duca di Mantova per eccellenza, che sarà Celso Albelo. A completare il cast Carlo Striuli nel doppio ruolo di Monterone e Sparafucile, Francesca Franci nel ruolo di Maddalena e Natasha Verniol in quello di Giovanna. Il tema hughiano della bruttezza, della deformità non sembra invece così decisivo in Verdi. C’è sempre un momento in cui ci si chiede: e se Rigoletto non fosse deforme? Forse ogni padre che circonda la figlia di un amore così opprimente e costrittivo non corre verso un simile disastro? La deformità di Rigoletto sembra soprattutto rinviare al mondo sociale in cui egli agisce, uno spazio di corruzione e di cinismo diffuso che porta alcuni esseri umani a strumentalizzarne altri per soddisfare i propri piaceri immediati. Quello che senza dubbio mi commuove in Rigoletto è il bisogno tutto mentale e immaginario di preservare uno spazio puro, un riparo per l’amore in un mondo sconvolto dall’interesse. Tuttavia l’amore assolutamente puro come Rigoletto lo concepisce è impossibile. Se Gilda è attratta dal Duca, è perché l’amore padre-figlia è totalmente asimmetrico: l’amore del padre è quello di un uomo che non è stata lei a scegliere. Per sentirsi esistere ella ha dunque bisogno di uscire dal vincolo paterno, pur col rischio di amare qualcuno che non la ricambierà. L’aspirazione alla purezza di Rigoletto – certamente esasperato dalla deformità e dalla sensazione di macchia che essa comporta – si può tuttavia rintracciare in tutti coloro che si rifugiano nell’amore per sfuggire alla realtà. Queste persone cercano di ricreare una piccola isola in cui credere ancora a qualcosa: quest’isola però è talmente chiusa in sé stessa che si disintegra dall’interno, distruggendo così la purezza che esse pensavano di proteggere. Rigoletto si è maledetto da solo nel tentativo di tenere rigidamente separate alcune sfere della sua esistenza, nella sua aspirazione a costruire un mondo fuori dal mondo e, forse, oggi bisogna ricercare proprio in quest’ ambito la portata politica dell’opera. Alla fine Verdi sembra suggerire che il solo spazio di purezza possibile è la morte. Ma Rigoletto deve sopravvivere al sacrificio della figlia. Poiché il mondo di Rigoletto non si divide tra quelli che saranno salvati e quelli che non lo saranno, come il protagonista vorrebbe credere, ma tra coloro che muoiono e coloro che sopravvivono. È un mondo in cui non ci si può più affidare a Dio anche se i personaggi tante volte lo invocano, è un mondo senza trascendenza ove ognuno è dolorosamente rimandato a sé stesso e ai suoi fantasmi. Grazie al reticolo musicale creato dal motto della maledizione, nelle sue implicazioni metriche e armoniche, Verdi scavalca di slancio ogni censura ponendo in enfasi il concetto che stava alla base del suo dramma, o fu forse il divieto a stimolarne vieppiù l’estro. In Rigoletto Verdi si spinse molto più in là, presentandoci una classe dominante fatta da cortigiani amorali, che passano il tempo a spettegolare di amanti e corna, o a tessere trame crudeli. Fra loro emerge il Duca, primo ed unico tenore totalmente negativo del teatro verdiano: frivolo ed egoista, egli è preda di tutte le passioni più effimere che soddisfa con prontezza, abituato all’esercizio dispotico del potere. Peraltro egli canta alcune splendide melodie liriche, ma Verdi gliele affidò soprattutto per connotare la sua fatuità e fargli esprimere a scopi ingannevoli un sentimento che in realtà non prova mai sino in fondo, anche quando sembra andarci vicino, come nella «Scena e aria» (n. 8 del second’atto) dove si strugge per il rapimento di Gilda – «colei sì pura, al cui modesto sguardo / quasi spinto a virtù talor mi credo», declama con abbandono. «Quasi»: in- fatti, non appena apprende che la ragazza è stata nascosta dai cortigiani nei suoi appartamenti, si riscuote e intona la cabaletta, inno al più bruciante dei desideri che immediatamente corre a placare. Anche nel duetto con Gilda i versi minano l’immagine del giovane povero e innamorato, in una sorta di esaltazione dell’amore fine a sé stessa: Adunque amiamoci, – donna celeste. D’invidia agli uomini – sarò per te. Dal canto suo Rigoletto sin dall’inizio fa il possibile per guadagnarsi l’odio di chi lo circonda in palcoscenico e l’antipatia di chi lo guarda dalla sala ma, a differenza dei suoi superficiali nemici, egli ci spalanca l’abisso della propria anima, e le sue confessioni esprimono un infinito tormento interiore. La paternità, sentimento umano e protettivo, lo riscatta solo parzialmente ai nostri occhi, pure non riesce a farci dimenticare la ferocia con cui ha schernito Ce- prano e Monterone. Non è dissimile la sua condizione da quella del sicario Sparafucile, che nell’indimenticabile seconda scena del primo atto viene a offrirgli i suoi servigi in una buia calle di Mantova, ed egli ne è consapevole quando intona il monologo «Pari siamo! … io la lingua, egli ha il pugnale». Perfette “parole sceniche”, perché scolpiscono la situazione in una fulminea sintesi, che è cifra anche della grande «Scena ed aria» n. 9 del secondo atto. Il buffone passa dal sospetto,la lamentosa cantilena iniziale, all’ira «Cortigiani, vil razza dannata!»  alla commozione «Ebben io piango», sino ad umiliarsi di fronte a tutta la corte «Miei signori, perdono, pietate…». Ed è proprio questa concentrazione di atteggiamenti, in un arco che ripiega su sé stesso (dal più agitato ed imperioso all’implorazione, sino al lirismo, un po’ sentito e un po’ di facciata, comunque musicalmente autentico ad ingigantire l’empito del personaggio che, nel finale secondo, decide di vendicarsi «Sì, vendetta, tremenda vendetta». Ma il povero protagonista non ha tenuto nel dovuto conto la diversità dell’animo femminile, e l’amore altruistico di cui una donna è capace, anche se indossa i panni coloriti della prostituta Maddalena, e dunque il Duca si salverà grazie alla passione che accende nella sorella del sicario, e a quella che ha già infiammato l’innocente cuore di Gilda. Verdi aveva dipinto la figlia di Rigoletto con tratti di enfatica ingenuità nel «Caro nome», stucchevole aria cesellata come un merletto dalle colorature, ma di assoluta necessità drammatica: quella bimba ingenua sino al limite del credibile, dopo aver conosciuto l’amore in modo di- verso da come l’immaginava, diviene traumaticamente, prima nella confessione del- l’oltraggio subito (il rapimento e la rottura dell’illusione nell’incontro col Duca a palazzo, e chissà che altro ancora: «Tutte le feste al tempio»), poi nel «Quartetto» e, infine, nella «Scena, terzetto e tempesta», una donna matura e consapevole, assoluta dominatrice della scena. Quale contrasto con quel Duca da lei amato, smanioso pupazzetto sempre uguale a sé stesso, capace solo di affermare nella ballata iniziale che «Questa o quella per me pari sono» e ribadire alla fine il suo credo libertino cantando la celebre romanza «La donna è mobile».«V’ho ingannata, colpevole fui» è una delle frasi più disperate che mai abbia pronunciato una donna verdiana, e tocca così profondamente il cuore da farci sembrare forse l’unico omaggio, del resto doveroso, alle convenzioni dei più il momento in cui, accompagnata dagli arpeggi del flauto, Gilda offre al padre l’unica consolazione per i poveri e i reietti, «Lassù in cielo, vicino alla madre». Quel cielo di delizie incorporee non può esistere per il povero gobbo che, impotente, è messo di fronte al suo totale fallimento.

 


 

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