L´ irripetibilità dell´esistenza umana

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Al Punto Einaudi si è discusso della filosofia del pensatore francese Vladimir Jankelevitch protagonista dei due ultimi lavori pubblicati da Enrica Lisciani Petrini

 

 

 

Di Lorenzo De Donato

Sono stati presentati martedì pomeriggio presso il Punto Einaudi di Salerno i due testi del filosofo Vladimir Jankelevitch «Il non-so-che e il quasi-niente» e «Da qualche parte nell’incompiuto» (una lunga intervista fattagli dall’allieva e scrittrice Béatrice Berlowitz), entrambi pubblicati da Einaudi, curati ed introdotti da Enrica Lisciani Petrini, studiosa della filosofia francese del novecento e docente dell’Università degli Studi di Salerno. L’incontro, che rientrava nella manifestazione «Primavera Einaudi 2012» promossa dall’Assessorato alla cultura del Comune di Salerno, dal Punto Einaudi di Salerno e dall’Associazione culturale «Koinè» in onore del centenario della nascita di Giulio Einaudi, ha visto la partecipazione dei docenti universitari Francesco Tomatis, Giuseppe Cantillo, Maria Giuseppina De Luca, Aldo Trione, Massimo Adinolfi, e della stessa Lisciani Petrini. Presenti tra il pubblico anche i docenti Clementina Cantillo, Francesco Vitale e Vincenzo Cocco. Jankelevitch, filosofo del secolo scorso morto nell’ ’85, ebreo di origine russa naturalizzato francese, pensatore originale e indipendente, difficilmente inquadrabile in una corrente filosofica, si è occupato molto di musica e critica musicale, ma ha anche elaborato una visione del mondo e dei concetti che vanno forse a costituire una vera e propria filosofia della quotidianità (ben lontana però dal senso comune), una filosofia che ha indubbiamente qualcosa di poetico e musicale, una filosofia dell’esistenza in cui ogni essere umano, riflettendo sulla propria vita e sul proprio esistere, si può riconoscere. Il filosofo francese parte dall’idea bergsoniana che l’esistenza sia una durata, un flusso temporale, un divenire in continuo mutamento e in continuo movimento in cui è impossibile individuare il principio primo della realtà o l’essenza ultima delle cose, in cui è impossibile trovare una Verità unica e assoluta. La conclusione di tale ragionamento è che tutto – la realtà, la vita umana – sia imperscrutabile, ineffabile, sfuggente, e proprio per quest’assenza di regole e sistemi normativi l’uomo ha totale libertà nell’agire e di conseguenza piena responsabilità delle proprie azioni: l’ineffabile quindi non è l’effimero, poiché non conduce al relativismo e allo scetticismo, ma ad un possibile impegno anche sul piano etico e politico. Si tratta di una ʺleggerezzaʺ, per parafrasare lo scrittore Milan Kundera (che in un suo romanzo incarna la filosofia di Jankelevitch ma senza citarlo direttamente), che a lungo andare diventa insostenibile e si trasforma in ʺpesantezzaʺ. Quella di Jankelevitch è anche una filosofia della parola, perché l’autore ebreo gioca con le parole, attua una moltiplicazione e variazione di parole ed espressioni, quasi dei giochi linguistici non però fini a se stessi ma volti a cercare di cogliere e capire questo ineffabile che è il nostro stare al mondo, il nostro esistere. Il ʺnon-so-cheʺ indica la temporalità, la finitudine dell’uomo, la morte. La morte è un’esperienza eccezionale e misteriosa, è addirittura – da vivi – inesperibile, nel senso che è un’esperienza che non si può vivere se non morendo. Un qualcosa di assolutamente irrevocabile e irreversibile. Jankelevitch si occupa della vita concreta, delle esperienze, delle situazioni, del vissuto di ognuno di noi, dell’ineffabilità, dell’indescrivibilità del nostro esser vivi. E’ per questo che nel suo pensiero troviamo amalgamati Dostoevskij, Proust, Montaigne, Pascal, Rilke, Baudelaire, la poesia, la musica, poiché sono tutte suggestioni che aiutano a completare questa nostra incompletezza. Il ʺnon-so-cheʺ indica la frammentarietà, l’indefinitezza, l’incompiutezza della vita umana, quel qualcosa di sfuggente e di mai del tutto comprensibile. Inoltre il tempo scorre inesorabile, la vita è irreversibile, noi esseri umani siamo creature consumate dal tempo: Jankelevitch riflette anche su questo, sull’attimo, sull’istante, sull’occasione, con il concetto del ʺmai-piùʺ. Ogni cosa avviene soltanto una volta e mai più, ciò che si è vissuto una volta non si potrà mai più rivivere. Il ʺmai-piùʺ consiste nell’unicità e irripetibilità di ogni singolo momento della nostra esistenza e nell’infinita nostalgia che cala su di noi per ciò che di unico e irripetibile abbiamo vissuto. Altro concetto jankelevitchiano è il ʺquasi-nienteʺ: la vita non è né essere, né non-essere, ma un sentiero di mezzo, un qualcosa di intermedio, cioè il divenire, una ontofania continua, cioè il manifestarsi continuo e ininterrotto dell’essere. Questo divenire è il ʺquasi-nienteʺ di cui parla Jankelevitch, infatti ogni cosa è, ma subito dopo già non è più (però per un attimo è stata) quindi è quasi-niente. Qualcosa che è stato e che ora non è più (ogni nostra esperienza, ogni momento da noi vissuto), che è la stessa cosa del ʺmai-piùʺ cioè qualcosa che abbiamo vissuto e che non si ripeterà mai più (non nello stesso identico modo, almeno). Queste bizzarre eppur grandiose espressioni di Vladimir Jankelevitch ci parlano insomma della categorica unicità di ogni istante della nostra vita e della sua splendida e terribile irripetibilità e irreversibilità. Nelle parole di Kundera: «Non si può mai sapere che cosa si deve volere perché si vive una vita soltanto e non si può né confrontarla con le proprie vite precedenti, né correggerla nelle vite future. […] L’uomo vive ogni cosa subito per la prima volta, senza preparazioni. Come un attore che entra in scena senza aver mai provato».

 


 

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