La Musica del Carnevale, la festa del mondo alla rovescia

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La nascita e il simbolismo degli antichi canti carnascialeschi espressioni dello spirito pagano, alla corte di Lorenzo il Magnifico

 

Di Olga Chieffi

Nella più antica stampa dei canti carnascialeschi, un libretto senza note tipografiche, attribuibile al 1485, la xilografia di copertina fissa una scena carnevalesca paradigmatica: in mezzo a una strada, che il bugnato dei palazzi e gli sporti dei primi piani, subito denunciano per fiorentina, cinque personaggi ammantellati, forniti di vistosi copricapo e coi volti coperti da maschere, porgono dei dolci, delle piccole ciambelle, ad alcune donne affacciate alle finestre delle case circostanti. Da un lato, in disparte, un altro personaggio, con il capo avvolto nel ricco turbante dei gentiluomini, osserva la scena, offrendo il suo memorabile profilo. E’ Lorenzo de’ Medici, introdotto come spettatore della sua “canzone dei confortini” (i confortini o i bericuocoli sono i pasticcini che le maschere offrono, cantando, alle donne spettatrici) e quale inventore del canto di carnasciale. Falso è, però, il ruolo d’  “inventor” attribuito a Lorenzo. A Firenze, esisteva una lunga e lontana tradizione di festeggiamenti popolari, quali le “feste di primavera”, i calendimaggio, o la festa di S.Giovanni (l’antica festa dell’acqua lustrale e del battesimo pagano, la magica notte che chiude il ciclo ascendente del sole), celebrata con cortei, mascherate e rappresentazioni allegoriche, accompagnate da canti e strumenti, e dal 1415, si iniziò a festeggiare similmente anche il carnevale. “Il Magnifico pensò di variare, e non solamente il canto, ma le invenzioni, e il modo di comporre le parole, facciendo canzoni con altri piedi vari, e là suvi, comporre con nuove, e diverse arie…..” scrive il Lasca nella celebre edizione di “Tutti i trionfi, carri, mascherate o canti carnascialeschi andati per Firenze, dal tempo del Magnifico Lorenzo vecchio de’ Medici; quando gli hebbero  primo cominciamento, per infino a questo anno presente 1559”. I costumi carnascialeschi popolari del travestimento, del canto, del double entendre, espressioni dello spirito pagano del carnevale, per il quale, allo stesso modo in cui il seme che sta “al di sotto” deve venire fuori, “al di sopra”, alla luce, tutto ciò che è inferiore diventa temporaneamente superiore, ovvero, il momento della sovversione rituale, della degradazione temporanea dei “potentes”, della prescritta esplosione degli istinti, sono rilevati da Lorenzo e affinati attraverso una composizione diversa di parole e musica. I soggetti preferiti sono rappresentazioni di determinate categorie di mestieri; tale è il canto dei bericuocolai, quello dei facitori d’olio, degli uccellatori, dei maestri di far fogli, in cui, ogni gesto dell’artigiano si piega a significare una mossa dell’atto erotico. Nel canto dei bottai, ad esempio, il Bientina, trasforma botti, barili, caratelli, bariglioni e bigonciuoletti in una serie di rapporti fra oggetti e attività sessuali, stando le botti, fornite di doppio accesso di “dreto e davante”, per le donne, e gli altri recipienti “ch’ hanno un sol buco ove si mette drento”, per gli uomini. La prova di bravura non è nella singola trovata metaforica, ma nella resistente coerenza, corrispondente all’apparente naturalezza descrittiva del canto artigiano. Virtuosismo che si esplicava nella scelta di un mestiere speciale, dove il corredo semantico è più raro e specifico, quindi, più difficile a “raddoppiarsi”, come nel canto dei giocatori di palla col trespolo o in quello della guerra dei fruttivendoli, dove gusti e preferenze sessuali si articolano a seconda che si vendano pesche, fichi, castagne o agresto. Lorenzo affidò questi testi ai maestri musicisti ospiti della sua corte. “Il primo canto o mascherata che si cantasse in questa guisa – scrive ancora il Lasca – fu d’huomini che vendevano bericuocoli e confortini, composta a tre voci da un certo Arrigo Tedesco, Maestro della Cappella di San Giovanni e musico a quei tempi riputatissimo”. Lo stile della musica composta per questi canti dai maestri fiamminghi Isaac, Agricola e, in seguito, da Alexandre Coppinus, Bartolomeo degli Organi e Giovanni Serragli, non si adatta certo all’idea di canto destinato ad un’esecuzione all’aperto da brigate, su carri in movimento per la città. Gli autori, forse lontani dallo spirito carnascialesco, pur mantenendo qualche cosa della semplicità dei canti più antichi, vollero rimanere nell’ambito di una pratica polifonica dotta. Lorenzo, invece, pur trasformando il canto di carnasciale in un genere colto, mai tradì quel riso carnascialesco coincidente con l’esplosione della gioia di vivere, profondamente legata alle misteriose forze telluriche e cosmiche che regolano il ciclo vitale della natura e dell’uomo, scandite dalla dialettica morte-rinascita.


 

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