Su La Notte di Natale di Nazhim Kalim Dakota Abshu, di Piefranco Bruni

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    Nota di Maurizio Vitiello – Riceviamo e, volentieri, pubblichiamo una calibrata riflessione su “La Notte di Natale” di Nazhim Kalim Dakota Abshu, ultimo testo inedito di un poeta cristiano morto nella notte di Natale del 1955, di Pierfranco Bruni, Consulente Culturale della Presidenza della Camera dei Deputati, Presidente Nazionale del Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi” e Coordinatore Progetto Minoranze Linguistiche del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. 

     

     

    La Notte di Natale di Nazhim Kalim Dakota Abshu

    L’ultimo testo inedito di un poeta cristiano morto nella notte di Natale del 1955

    di Pierfranco Bruni

     

     

    Era la notte di Natale del 1955 quando Nazhim Kalim Dakota Abshu, poeta radicato nel mistero dei sufi, morì improvvisamente. Era nato nel 1900 a Tunisi. Anni lunghi sono trascorsi. Un poeta dalla formazione islamica, convertitosi al cristianesimo. Qualche giorno prima della sua scomparsa scrisse, ora recuperate tra le diverse poesie e pagine lasciate inedite e alcune edite nel corso di questi anni, cinque poesie, o meglio si tratta di un poemetto diviso in cinque parti, dedicate al Natale. Portano la data “Notte. 23 dicembre 1955” e compongono un poemetto sul quale certamente il poeta sarebbe ritornato a lavorarci soprattutto dal punto di vista linguistico.

    Sono versi incompiuti come tutta la poesia di Abshu è da considerarsi una poesia dell’illuminazione ma incompiuta. Nel mistero che si incammina nella vita e tra le parole di Abshu il senso del religioso resta un tracciato indelebile. La sua parola è fatta di una magia che è quella dei dettagli delle “Mille e una notte” e l’orizzonte della cultura araba è un immaginario la cui dimensione lirica ha come centralità un paesaggio fortemente onirico.

    Il sogno è nella certezza di non accettare mai la verità come verità assoluta dell’anima. La poesia di Abshu, in fondo, è una sottolineatura in cui le immagini non sono mai presenze materiali o non portano mai ad una oggettualità della realtà. Tutto ha il fascino del sublime. Come nella fiaba o nella favola o come nelle leggende.

    La cultura islamica è nella venatura di un cantico in cui c’è sempre l’amore. Così come nelle poesie della stagione della conversione. La croce non sostituisce la danza sufica. Si completano come se il canto fosse non una litania o una nenia ma una alchimia. Abshu assorbendo i canti del deserto e del mare della sua Tunisia e del suo Mediterraneo ha impastato nel linguaggio e nelle metafore la preghiera di Cristo e accanto alle voci della moschea si ascoltano i canti della preghiera della chiesa cristiana.

    “Dove Tu sarai, in questa notte/io ti ascolterò./Io porto il viaggio del deserto/e tu mi condurrai oltre./Sei la mia terra promessa/ma non cercare il mio sguardo/come se fossi nelle distanze della Galilea”. Versi che non hanno un titolo ma, come si diceva, una data ed è con una data che vive l’incipit di una “stazione”: “23 dicembre. La notte/ si abbandona all’alba./Sei tu la grotta/e siamo noi il gregge./Parlerai di perdono/ma ci sarà concesso/perché tutti siamo viventi nel peccato./Ma non dire parole vane o sguardo lontani/per una parola che trafigge l’anima./Tu perdoni/ma se io non credessi al peccato/il perdono non avrebbe destino./La notte si chiude./Questa notte/con la tua nascita./Nei miei Paesi l’ascolto delle voci/è indefinito./Io ho scelto il tuo viaggio/ma non per una perdonanza”.

    Siamo al centro della sua poesia e del suo percorso umano. Poesia e vita. Sono un legame nella resistenza dell’umanitas che si affida alla carità. Abshu si è affidato al cristianesimo mai abiurando la sua storia e la sua eredità islamica.

    Uno dei concetti che resta dentro la sua relazione Islam – Cristianità è data da questa frase annotata su un suo quaderno: “Il mio cammino ha i passi di un cammello. Il mio sguardo ha il chiarore degli occhi dell’aquila. Le mie parole hanno la fragilità del silenzio quando il silenzio vive della bellezza dell’armonia. Non ho lacrime per bagnare il deserto sul quale il mio tempo riposa. Non ho giorni perduti ma ho soltanto giorni da dedicare. Non vivo i ricordi perché tutto ciò che verrà sarà la mia vita. Non conosco i segreti perché il destino è nel mistero. Posso vivere di profezia perché la mia attesa è nella provvidenza”.

    In Abshu ci sono passaggi d’epoche e di civiltà e tutto sembra avere un senso. Nella vita come nella poesia. Le poche cifre esistenziali che si conoscono sono dentro la sua poetica. Ma un poeta come Abshu ha affidato tutto alla parola soprattutto quando la parola ha la conoscenza e la percezione del legame tra logos e patos.

     

     

    V. da “Notte 23 dicembre 1955” 

     

    Nel deserto

     

    Ho scavato le mie radici

     

    E il vento ha scagliato

     

    I segni della fede

     

    Nel mio cuore

     

    Vivo la Notte di Natale

     

    E la preghiera

     

    Che tu mi porti

     

    Ha la voce dell’amore

     

    Nella mia felicità

     

    Ho riposto

     

    La fragilità dei dolori

     

    E ti ascolto

     

    Con la luna

     

    Tra le parole

     

    Del viandante.

     

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