Uscito "Il Foglio Volante", marzo 2011.

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    “Il Foglio volante” di marzo 2011

     

    Viene spedito in questi giorni agli abbonati “Il Foglio Volante – Mensile letterario e di cultura varia” di marzo 2011. In questo numero testi di Bastiano, Loretta Bonucci, Fabiano Braccini, Aldo Cervo, Mariagrazia Colasanto, Antonio Conserva, Mariano Coreno, Amerigo Iannacone, Pietro La Genga, Salome Molina Lopez, Carlo Onorato, Franco Orlandini, Teresinka Pereira, Silvana Poccioni, Ezra Pound, Adolf P. Shvedchikov, Gerardo Vacana.

    Chi desideri ricevere copia saggio, la può chiedere a uno degli indirizzi: edizionieva@edizionieva.com oppure per telefono al n. 0865.90.99.50.

    Riportiamo, qui di seguito, il testo di apertura, a firma di Aldo Cervo, sul 150° dell’Unità d’Italia e un testo a firma Amerigo Iannacone.

    Da leggere.

     

    Maurizio Vitiello

     

     

    17 marzo 2011: centocinquantesimo dell’Unità

    Le ragioni che ci accomunano

     

    L’Italia paga – nell’odierna diatriba: celebrazioni sí, celebrazioni no – un prezzo alla storia: alla sua storia che ne ha fatto Paese piú unico che raro fra tutti gli altri Paesi del mondo. Geograficamente delimitato, e direi inequivocabilmente, da barriere naturali indiscutibili quali il mare e le Alpi, fu in età preromana già sede di innumerevoli etnie (Galli insubri, Etruschi, Latini, Osci, Appuli, Siculi etc.). Poi, dopo la colonizzazione romana, tradottasi nel volger dei secoli, in progressiva aggregazione socioculturale, intervenne l’insediamento in Roma della Chiesa, divaricante tra Nord e Sud, e con esso anche l’avvio di imponenti flussi migratori di popolazioni asiatiche in un Impero in profonda crisi, con il proliferare di Regni romano-barbarici che, se furono premessa all’assetto moderno dell’Europa, interruppero tuttavia traumaticamente il processo già difficoltoso di unitarietà avviato nella penisola.

    Perennemente contesa, l’Italia, da entità nazionali viciniori meglio organizzate, subí nell’Alto e Basso Medioevo dominazioni straniere che si sparsero sul territorio a macchia di leopardo, come quelle di Goti, Ostrogoti, Vandali, Longobardi, Franchi, Normanni, Svevi, Angioini, Spagnoli, etc. La lacerazione continuò – interna stavolta – nell’età comunale, coi Comuni del Centro-Nord, che tra IV e V secolo scaddero a Principati e Signorie per una cattiva gestione della democrazia fatta di insanabili faziosità e risse. Dal ’700 all’Unità infine, la nostra storia è fatta di dominio diretto (e indiretto) degli Asburgo, cui seguí l’ambivalente influenza francese, illuministica, a un tempo, e tiranna, fino al palese nepotismo del celebre Corso di Ajaccio. Sicché alla luce di tale quadro riepilogativo sembrerebbe dunque l’Italia altro non esser che semplice “espressione geografica”, dando credito al noto sarcasmo del reazionario Principe di Metternich nel tempo della Restaurazione postnapoleonica.

    Ora è certamente vero che la storia politica dell’Italia, quella a grandi linee appena riassunta, evoluta poi nell’’800 in un poco condiviso Risorgimento, ha portato il nostro Paese alla condizione di Stato unitario con circa sette secoli di ritardo su piú fortunate monarchie europee (Francia e Inghilterra), con visibile ricaduta – in negativo – sul sentimento della Nazione non ancora a tutt’oggi confermatosi in pienezza. E si metta anche nel conto che a Unità conseguita quel ritardo, in una con gli egoismi opportunistici di Stati europei con tanto di Costituzioni democratiche, trascinò il giovane Stato italiano in una spirale di errori pressoché inevitabili, dal primo dei quali: il mortale abbraccio di Bismarck del 1882, derivò il secondo: il “tradimento” della Triplice nel primo conflitto mondiale. E l’avvento di un Fascismo animoso ma velleitario, sostenitore di uno scatto d’orgoglio nazionale, ma senza mezzi, e costretto a misurarsi sul piano ideologico col progetto marxista infinitamente piú attrezzato per dimensione dottrinale di quanto non lo fosse la sistemazione teoretica del Fascismo operata a posteriori da Giovanni Gentile, chiuse poi, degli errori, la fatale triade.

    Ciò detto, è però vero anche che la Cultura italiana, indipendentemente dalle sfavorevoli contingenze politico-ideologiche, l’unitarietà la tenne fin dai suoi primi albori, mantenendola poi, e approfondendola nei secoli. Se è vero – ed è vero – che le lingue sono elemento forte di identità dei popoli, bisogna allora convenire che il latino, via via imponendosi sugli idiomi delle diverse etnie presenti nella penisola (e fuori di essa) divenne importantissimo strumento di amalgama socioculturale. E degli intellettuali che in quella lingua realizzarono i loro capolavori, divulgatori potentissimi di intramontabili valori umani e dello spirito, solo pochi furono di Roma e dintorni. Andronico ed Ennio erano pugliesi, campani Nevio, Lucilio e Lucrezio, umbri Plauto e Properzio, Virgilio e Plinio erano rispettivamente di Mantova e di Como, Orazio era lucano di Venosa, abruzzese di Sulmona Ovidio, Catullo e Livio infine erano veneti. Evidente dunque come la varia provenienza geografica di gente colta (e ci si è limitati alla piú nota), impegnata nei diversi ambiti dello scibile e dell’arte, dalla filosofia alle scienze, dall’agricoltura alla storia, dalla poesia lirica all’epica, attesti l’espandersi di interessi culturali comuni, destinati a divenire nei tempi giusti tessera identificativa di una nazione.

    Con la nascita delle lingue neolatine, la funzione aggregante del nostro italiano (nato, anch’esso, in ritardo rispetto alle altre lingue nazionali, ma ben piú maturo nella strutturazione sintattica) concorre a consolidare il corredo culturale della italianità. Di tale consolidato corredo fanno fede autori nelle cui opere il nome Italia risuona, e non per semplice vezzo erudito, né per il solo effetto eufonico che in sé reca, ma come concreto richiamo di una identità nazionale di che si radica, e in profondità, il sottosuolo culturale dell’intero nostro territorio. E qui chiamiamo a testimoni Dante e Petrarca, poi Machiavelli, Leopardi, il grandissimo Manzoni, che meglio di ogni altro riassunse i tratti unitari dell’Italia ottocentesca: una d’arme, di lingua, d’altare / di memorie, di sangue e di cor. E Manzoni, nativo di Milano, nipote per ramo materno di Cesare Beccaria, era maturato negli ambienti illuministici dell’europea Parigi.

    Quali sono allora i tratti unitari che nella contemporaneità accomunano noi italiani? Depennando dalla sintesi manzoniana sia l’arme (non abbiamo piú “austriaci” da combattere), che il sangue (la multietnicità è una ricchezza, non il contrario), rimangono – inamovibili – la lingua, l’altare, le memorie, ed il cor.

    Del ruolo identificativo della lingua s’è già parlato, ma ad esso vanno aggiunti i ruoli altrettanto aggreganti della Religione, del Passato e del Sentimento. E l’Italia ha il suo Credo cattolico, la singolare Storia che ne fa Nazione unica proprio per diversità, e il suo Sentimento di Paese laborioso e solidale, che con gli altri, nel computo del dare e dell’avere, chiude certamente a credito.

    Certo! Se tale variegato sottosuolo di pensiero e di arte avesse potuto nel trascorso Risorgimento evolvere – localmente dico – in una ricerca di unità politica attraverso itinerari autonomi, senza interferenze e accelerazioni piú o meno interessate di soggetti politici terzi, sarebbe stato l’ideale, e forse si sarebbe pervenuti fin da subito a un sano federalismo, rispettoso delle autonomie locali e delle locali tipicità antropologiche. Ma nello svolgersi degli eventi, da che mondo è mondo, non sempre (per non dire quasi mai) quel che avviene si srotola in maniera indolore, e lungo il tracciato della non violenza e dell’altrui rispetto. E tuttavia anche nella storia vale il motto per il quale “cosa fatta, capo ha”. Che a dirla in breve vuol significare che, fermo restando il diritto-dovere di ristabilire, almeno intenzionalmente, a trecentosessanta gradi la verità, bisogna poi prendere atto dell’accaduto, ricavarne – se è possibile – un qualche insegnamento, e lavorare poi a costruire il futuro, facendo leva sulle ragioni che ci accomunano e non rinfocolando vecchi rancori ed inimmaginabili voglie di rivalsa.

     

    Aldo Cervo

     

     

    Poste e cultura: sempre peggio

     

    Zitti zitti, nella disattenzione generale, hanno fatto passare un nuovo aumento delle tariffe postali per l’estero, che costituisce un ulteriore attacco alla cultura.

    Rientra nella normalità, qualcuno pensa, se per spedire una lettera fino a 20 grammi nella zona 1, ovvero l’Europa, non ci vanno piú 65 centesimi ma 75. Ma se guardiamo al rigo successivo, vediamo che “fino a 50 grammi” si pagano 2,40, cioè piú del triplo. Quindi, se in una busta ci sono, mettiamo, tre fogli A4, ci vuole il corrispondente di 4.500 lire di una volta. Costa piú la spedizione di una lettera che pesi per esempio 25 grammi, che tre lettere che ne pesino 20.

    Ma il peggio è per le stampe. Se dovete spedire libri, giornali o riviste, vi rovinate. Per un libro che pesi fino a un chilo, ci vogliono 9 euro per la zona 1, 14 per la zona 2 (paesi extraeuropei), 20 per la zona 3 (Oceania). Se pesa piú di un chilo, saranno rispettivamente 15, 25 e 30.

    Il primo attacco venne con l’abolizione della tariffa ridotta delle stampe per l’estero, cui seguíl’abolizione della tariffa “stampe”, tout court, e poi l’abolizione della tariffa “ordinaria”. Rimase solo quella “prioritaria” (“priorità” poi rispetto a che cosa?), infine quest’ultima mazzata.

    Pensate un po’ agli ingenui di una volta che non si preoccupavano dei dividendi degli azionisti ma della diffusione della cultura italiana all’estero e fissavano tariffe “stampe” molto basse e in piú ridotte per tutti al 50 per cento se solo non si trattava di stampe pubblicitarie.

    Ebbene sí, non possiamo che rimpiangere i vecchi tempi quando le poste svolgevano una funzione sociale e non meramente economica e finanziaria e gli uffici postali non sembravano supermercati.

     

    Amerigo Iannacone

     

     

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