Tassa occulta sui cittadini e sulle imprese

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    Che la giustizia italiana sia un grosso lumacone lo sapevamo già. Però la fotografia scattata dal ministero di via Arenula, che il Sole 24 Ore offre in anteprima, ci aiuta a entrare meglio in confidenza con la bestia. Perché i dati sono progressivi, nel senso che registrano l’andamento dei processi durante il biennio 2006-2008. Perché sono altresì parcellizzati, enumerando le singole materie sulle quali verte il contenzioso. Perché misurano la durata effettiva, anziché quella presunta, dei giudizi definiti con sentenza. E perché infine si riferiscono alle cause civili, che più direttamente toccano la generalità degli italiani.

    Da questi dati emerge innanzitutto una pessima notizia: salvo i procedimenti decisi in tribunale, in tutti gli altri casi il tempo del giudizio si dilata, cresce di anno in anno. Del 13,4% in corte d’appello, del 15,1% dinanzi ai giudici di pace, mentre in Cassazione la stima s’attesta al 3,7%, 41 giorni in più. Insomma la lentezza dei processi si autoalimenta, come una valanga rotolando a valle. Tempi più lunghi, arretrato più cospicuo, e l’arretrato genera ulteriori allungamenti temporali. Un po’ come succede riguardo all’inflazione normativa, di cui d’altronde è figlio il lumacone.

    Tu cerchi una legge per risolvere il problema di giornata, come cercheresti una cravatta in un armadio stipato alla rinfusa; ma ovviamente non la trovi, e allora corri ad acquistarne un’altra, facendo crescere il disordine anziché diminuirlo.

    In secondo luogo, piove sul bagnato. E a bagnarsi fino al midollo sono i più deboli, chi non ha un ombrello per ripararsi il capo. I distretti giudiziari più virtuosi stanno tutti al nord, l’inefficienza ha le sue capitali al sud. Dai 2 anni che impiega il tribunale di Torino ai 4 anni che ci mette quello di Messina c’è una misura doppia, così come è doppio il reddito dei torinesi rispetto ai messinesi. Significa che la questione meridionale si rispecchia nella questione giudiziaria. Ma significa altresì che la promessa d’eguaglianza custodita nella Costituzione è diventata carta straccia. Come la promessa dei diritti, dal momento che se un diritto esiste, dev’essere azionabile in giudizio; altrimenti è una chiacchiera, un imbroglio. D’altra parte anche la ragionevole durata del processo – sancita da un emendamento costituzionale nel 1999 – è un’illusione ottica, giacché dal 2000 in poi i tempi processuali sono lievitati ulteriormente. Una tripla ferita alla legalità costituzionale, anzi alla legalità tout court: come potremmo prendere sul serio il codice stradale, quando la legge più alta è una favola cui non credono più neanche i bambini?

    In terzo luogo, il lumacone frena l’economia italiana. Ne è prova il dato relativo ai fallimenti: 9 anni, con una performance peggiorativa fra il 2006 e il 2008. È il tempo più lungo che si trascorre in tribunale, il quintuplo rispetto a un divorzio o a una separazione giudiziale. Chi ci rimette? Tutti, ma ancora una volta specie i più deboli fra i consumatori, perché le nostre imprese devono sopportare un costo aggiuntivo, e perché quest’ultimo si scarica sulle merci che acquistiamo. Un’Iva giudiziaria, chiamiamola così.

    Misurare la temperatura del malato è indispensabile per procedere alla diagnosi. Poi, però, bisogna interrogarsi sulle cause da cui deriva l’infezione. La più grave muove da un eccesso, non da un difetto di risorse (secondo il rapporto Cepej spendiamo 4,08 miliardi di euro per la giustizia, contro i 3,35 della Francia e i 2,98 della Spagna). E infatti abbiamo in circolo troppi uffici, dato che le 1.292 sedi giudiziarie sono il doppio di quelle inglesi. Troppi avvocati (236mila), con la conseguenza che a Roma lavorano più studi legali dell’intera Francia. Troppe leggi (nel 2009 la commissione Pajno ne ha contate 21.691, che raddoppiano sommandovi quelle regionali, senza dire dei 70mila regolamenti). E in conclusione troppe liti, giacché i soli bisticci giudiziari fra condomini sono 800mila l’anno.

    Tuttavia se non riusciamo a far dimagrire il lumacone, possiamo almeno liberare dagli intralci il suo cammino. Anzi: abbiamo già cominciato a farlo attraverso l’Adr (Alternative dispute resolution), in uso ormai da lungo tempo negli Stati Uniti, dove il patteggiamento è la regola e il processo l’eccezione. Quanto all’Italia, meglio tardi che mai. Con la legge 69/2009 e il decreto 28/2010 la mediazione civile ha trovato spazio nel nostro ordinamento. Significa che dal marzo 2011 le cause nate fra le mura condominiali, al pari di quelle fra automobilisti, eredi, locatari e via elencando, passano attraverso la conciliazione obbligatoria. Funzionerà? Il rischio è che la litigiosità degli italiani intasi gli stessi organismi di conciliazione. Ma almeno in questo caso, non servirà troppo tempo per scoprirlo.

    michele.ainis@uniroma3.it                       miki de lucia

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