Gli studi legali seguono le orme di Marco Polo. Il business è assistere aziende cinesi in Italia

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    Il viaggio degli studi legali italiani per arrivare in Cina è lungo quanto quello di Marco Polo, ma la ricompensa del tempo e del denaro investiti per ottenere la licenza per operare nel paese è l’accesso a un mercato in cui la crescita è sostenuta dai clienti cinesi che investono in Occidente. Un trend invertito rispetto a pochi mesi fa, quando gli studi viaggiavano verso Est per accompagnare le imprese italiane che investivano nel boom dell’economia cinese.
    Gli studi legali d’affari non intendono perdere questa occasione di business.

    L’ultimo in ordine di tempo a ricevere la licenza per operare in Cina, e in particolare a Shanghai, è Nctm, studio con 270 avvocati e sede a Milano, Roma, Verona, Londra e Bruxelles. Dopo mesi di lavoro e la presentazione di una pila di documenti «alta una spanna», come precisa Hermes Pazzaglini, collaboratore dello studio in Cina da 19 anni, Nctm è stato autorizzato a operare nel mercato indipendentemente dal partner locale AllBright, lo studio legale cinese con cui Nctm collabora già da alcuni mesi attraverso un desk specializzato.

    Il desk è composto da 9 professionisti e coordinato dal socio Vittorio Noseda con il supporto di Alessia Pastori e dello stesso Pazzaglini, che commenta: «Nel 2008, il 95% del lavoro era con clienti stranieri che investivano in Cina. Oggi il 20% dei clienti è cinese, ma in termini di fatturato le operazioni valgono la metà del totale. I deal cinesi in Italia sono ancora pochi ma hanno valore elevato».

    Lo studio segue diversi clienti cinesi, tra cui società quotate attive nel settore automobilistico e della tecnologia. Da Shanghai Pazzaglini conferma che le prospettive sono di una crescita del lavoro con i clienti locali. L’iter di Nctm per ottenere la licenza è già stato seguito in passato da altri studi.

    Per operare come studio legale straniero è infatti necessario ottenere un’autorizzazione specifica per ogni città in cui si vuole aprire una sede, che viene rilasciata dal Ministero della Giustizia cinese per le città della Cina continentale e dalla Law Society per Hong Kong.
    Secondo i dati pubblicati periodicamente dal Ministero, gli studi italiani autorizzati a operare in Cina sono tre.

    L’ultima lista è aggiornata a gennaio 2009 e cita Lega Colucci e Associati Law Firm a Pechino (con licenza ottenuta il 10 agosto 2005), Chiomenti sempre a Pechino (18 marzo 2007) e Picozzi & Morigi a Shanghai (20 dicembre 2006). Da allora il mercato ha registrato alcune novità. Mentre Lega Colucci sta affrontando la procedura di liquidazione, Chiomenti, uno dei maggiori studi italiani per fatturato, ha raddoppiato con l’autorizzazione per operare a Shanghai.

    «In presenza di tutti i requisiti, i tempi per ottenere una licenza per operare in Cina sono di circa 12 mesi», spiega il socio di Chiomenti Filippo Modulo. «Dall’ottenimento di una prima licenza è poi necessario attendere un tempo di norma più lungo, circa 36 mesi, per ottenere un’ulteriore licenza».

    In Cina, lo studio conta 44 professionisti nelle 3 sedi di Pechino, Shanghai e Hong Kong di cui 21 cinesi e 6 soci. «Assistiamo imprese italiane ed europee che intendono sviluppare le proprie attività nella produzione e distribuzione di prodotti», aggiunge Modulo, «ma naturalmente anche clienti cinesi che intendono investire in Italia». Lo studio è anche particolarmente attivo negli arbitrati internazionali con base in Asia.

    Chiomenti era stato uno dei primi studi italiani a investire nella regione e nel 2008 aveva rafforzato la presenza nel paese grazie all’acquisizione dello studio di Luca Birindelli, il primo avvocato italiano a ottenere individualmente la licenza per operare in Cina e oggi attivo sul mercato con la boutique BeA, di cui Chiomenti aveva ottenuto la voltura.

    Proprio pochi giorni fa, Birindelli ha ufficializzato un accordo con lo studio internazionale Withers per offrire consulenza legale e finanziaria a un preciso target: la comunità dei cinesi benestanti. Secondo le stime infatti, i cinesi con un patrimonio da gestire sono circa 477mila. Un numero destinato a crescere, come quello degli avvocati italiani che operano in Cina.

    fonte:sole24ore            miki de lucia

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