Oscar Pistorius è stato condannato a cinque anni per omicidio colposo

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    Dalla pista d’atletica a una commedia di Shakespeare, Oscar Pistorius prima ha aperto una strada, si è fatto simbolo, portabandiera del nuovo Sudafrica, poi si è sparato addosso. In un percorso di condanna e abbandono dello sport, dominato dalla gelosia, sopraffatto dall’orrore, triste compagno della finzione di Otello e delle storie di Monzone O.J. Simpson. L’atleta Oscar Pistorius l’abbiamo visto ridere e piangere, lottare e vincere, nello sport come nella vita, persino gareggiare contro un cavallo a Doha in una sfida continua, ma nessuno si aspettava il salto dagli elenchi di influenza del «Time» alla prigione. Oscar Pistorius viene condannato a cinque anni di carcere per l’omicidio colposo della sua fidanzata, la modella Reeva Steenkamp, avvenuto nella loro abitazione nella notte del 13 febbraio 2013. Pistorius, rimasto inflessibile prima e dopo la lettura della sentenza, è stato portato nel centro di detenzione Kgosi Mamphuru di Pretoria. «Sono fermamente convinto che una limitazione fisica non è tale se serve a sviluppare le proprie capacità». Il suo coach di fitness Jannie Brooks raccontò un episodio che vale un ritratto: «Si allenava sempre con la tuta, faceva le stesse cose degli altri, non cercava scuse per saltare gli esercizi. Solo una volta quando lo invitai a scendere più giù sulle gambe, mi rispose che non ce la faceva e mi mostrò le protesi». Non importa la ricerca del tempo che passerà in prigione 10 o 20 mesi prima dei domiciliari – giochino che giornali di mezzo mondo stanno facendo – il dato è la condanna che lo cancella due volte. Un uomo che era ridotto a metà, senza gli arti inferiori, e nonostante la mancanza si era messo a correre, adesso smette. Il comitato olimpico ha fatto sapere niente Rio 2016 e fermo fino al 2019. La faccia da bravo ragazzo, pettinato come Matt Damon, i modi da corte inglese, la mentalità da manager, l’animo da pirata. Per la corte non è «una persona ragionevole» piuttosto un uomo precipitoso e ansioso di usare forza e violenza. Questo processo ci restituisce una maschera e una frattura. Basta aver letto i romanzi di Dostoevskij o Conrad per sapere che tutti abbiamo a che fare con l’orrore, il punto è il controllo di questo. Pistorius si consegnava alle copertine come un nuovo uomo e tutti abbiamo creduto ai suoi sforzi, alla sua sincerità in gara come alla sua battaglia di parificazione. Ma fuori dalla pista non ha saputo tenere a bada quella che era la sua ferita, nonostante una madre meravigliosa capace di giocare tutte le mattine con la diversità tra Oscar e suo fratello, a uno diceva di mettersi le gambe e all’altro le scarpe. Questo è il romanzo Pistorius, ma dentro, sotto, di fianco, c’era altro: un moloch, per accumulo di dolore forse incontrollato, con l’insegna della diversità più luminosa di un hotel a cinque stelle, eretta dagli sguardi, dalle possibilità, dalla normalità degli altri. Non ha sparato solo contro Reeva Steenkamp, no, ha sparato contro tutto quello che non gli sarebbe mai appartenuto. E per quanti racconti facciano gli amici, rimane la diversità, di lui, perso in mezzo metro di neve in jeans mentre giocava coni ragazzi a lanciarsi pallottolate, con quelli che non lo conoscevano e gli chiedevano:«Ma non hai freddo alle gambe?» Ecco, guardavamo nella parte sbagliata. La sua è tutta una storia di ricerca del rispetto, prima nella normalità di vita poi in quella sportiva. Sempre senza perdere il sorriso, posando col giusto profilo, usando il tono di chi sa che vincerà, oggi o domani non conta, con un linguaggio diretto e mai banale, rifiutando la compassione. Al processo lo abbiamo visto piangere e vomitare per la prima volta, in un montaggio tarantiniano con la musica sbagliata. Ora, all’utopia dell’uguaglianza sportiva dovrà aggiungere una utopia di redenzione, dovrà reinventarsi per la seconda volta, senza sua madre però, dovrà di nuovo misurare il vuoto, questa volta non attraverso il suo corpo ma attraverso il dolore della famiglia di Reeva Steenkamp. Ha impiegato otto anni per arrivare a Londra, qualificato per i 400 metri e in nome di una diversità che altri potranno prenotare a suo nome. Mancò Pechino e riuscì a non smettere, tra critiche e sospetti, illazioni e molte sciocchezze sulle sue protesi. Quando gli hanno tagliato le gambe sotto il ginocchio per una malformazione genetica aveva 11 mesi, avrebbe dovuto gattonare per il resto della vita. Da doppio amputato ha vinto l’oro dell’imposizione di un sogno rispetto all’handicap, poi però tutta la distanza tra il pretendere e l’avere, il possesso e la perdita, gli ha presentato il conto, e lui ha sparato, ha sparato, senza ragione. (Marco Ciriello – Il Mattino)

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