Teramo/ Registrazione choc in carcere: botte di nascosto ai detenuti

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    Abbiamo rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto. Un detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto…”. Parole dal carcere di Castrogno a Teramo, parole registrate all’interno di uno degli uffici degli agenti di polizia penitenziaria. Frasi impresse in un nastro. Ora questo audio è nelle mani della Procura della Repubblica di Teramo che ha aperto un’inchiesta sulla vicenda. Sono parole che raccontano di un “pestaggio” ai danni di un detenuto, quasi come fosse la “prassi”, un episodio che rientra nella “normalità” della gestione del penitenziario.

    Un concitato dialogo tra un superiore e un agente che svelerebbe un gravissimo retroscena all’interno di un carcere già alle prese con carenze di organico e difficoltà strutturali.

    “Forse l’ho detto in un momento di rabbia”. Poco più che un commento, quello che il commissario Luzi, da più fonti riconosciuto come “la voce” della registrazione al centro del caso scoppiato sul presunto “pestaggio” a Castrogno, ha affidato ai colleghi. Lo riporta il sito online del giornale La Città di Teramo. Nulla di ufficiale, ovviamente (perché per parlare ufficialmente il graduato dovrebbe avere un’autorizzazione del Provveditorato) ma solo un commento di un uomo che non ricorda di aver mai detto quelle parole a meno che, si diceva, non sia stato un momento di rabbia. Un commento affidato a chi, dopo aver sentito il nostro CD, gli riferiva che sì, quella “voce” era proprio la sua. E che di un momento di rabbia si tratti, di un “cazziatone”, lo dimostra il tono della chiacchierata: chi parla è arrabbiato, perché è stato commesso un errore, che avrebbe potuto scatenare una rivolta.

    Abbiamo rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto. Un detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto…”. Parole dal carcere di Castrogno a Teramo, parole registrate all’interno di uno degli uffici degli agenti di polizia penitenziaria. Frasi impresse in un nastro. Ora questo audio è nelle mani della Procura della Repubblica di Teramo che ha aperto un’inchiesta sulla vicenda. Sono parole che raccontano di un “pestaggio” ai danni di un detenuto, quasi come fosse la “prassi”, un episodio che rientra nella “normalità” della gestione del penitenziario.

    Un concitato dialogo tra un superiore e un agente che svelerebbe un gravissimo retroscena all’interno di un carcere già alle prese con carenze di organico e difficoltà strutturali.

    “Forse l’ho detto in un momento di rabbia”. Poco più che un commento, quello che il commissario Luzi, da più fonti riconosciuto come “la voce” della registrazione al centro del caso scoppiato sul presunto “pestaggio” a Castrogno, ha affidato ai colleghi. Lo riporta il sito online del giornale La Città di Teramo. Nulla di ufficiale, ovviamente (perché per parlare ufficialmente il graduato dovrebbe avere un’autorizzazione del Provveditorato) ma solo un commento di un uomo che non ricorda di aver mai detto quelle parole a meno che, si diceva, non sia stato un momento di rabbia. Un commento affidato a chi, dopo aver sentito il nostro CD, gli riferiva che sì, quella “voce” era proprio la sua. E che di un momento di rabbia si tratti, di un “cazziatone”, lo dimostra il tono della chiacchierata: chi parla è arrabbiato, perché è stato commesso un errore, che avrebbe potuto scatenare una rivolta.

    Suicidi, in Italia il rischio per i detenuti è venti volte superiore

    In Italia il rischio di suicidio tra la popolazione carceraria è superiore di 20 volte a quello dell’intera cittadinanza. Con i 59 casi nel 2009 (gennaio-ottobre) e i 39 da gennaio a novembre 2008, il paese  non si colloca troppo bene in un’ideale classifica europea: secondo il curatore del Dossier di Ristretti Orizzonti “Morire di carcere” Francesco Morelli “anche in alcuni paesi che riteniamo meno ‘democratici’ e ‘civili’ i suicidi tra i detenuti sono meno frequenti. In Romania, ad esempio, ci sono 40 mila detenuti circa e avvengono di media 5 suicidi l’anno. In Polonia ci sono oltre 80 mila detenuti e si registra un numero di suicidi che è la metà rispetto a quello dell’Italia (dati del Consiglio d’Europa)”.
     
    Che il problema sia consistente lo testimoniano anche i dati relativi ai tentati suicidi, che dal 1990 al 2008 ammontano a 13.980. Di questi, fortunatamente, oltre il 90% sono tentativi falliti, soprattutto grazie alla prontezza dei compagni di cella, artefici del salvataggio nel 70% dei casi. Un dato particolarmente rilevante, questo, all’indomani del suicidio di Diana Blefari, avvenuto nel reparto isolamento del carcere Rebibbia. Infatti Morelli sottolinea che, se è vero che l’intervento dei compagni è statisticamente rilevante, “il regime di isolamento risulta assolutamente controproducente”. Tant’è che, secondo i dati di Ristretti, ogni 4 detenuti suicidi uno muore in cella di isolamento. La limitazione delle occasioni di “socialità” e di tutti i contatti con l’esterno  sembrano essere le cause principali di un “estremo disagio esistenziale” – come lo definisce Morelli – che contribuisce alla decisione di togliersi la vita.

    Per cercare di arginare il problema, Ristretti propone un breve vademecum a uso e consumo degli operatori carcerari, indicando buone e cattive prassi. Ecco cosa non fare, ad esempio, con i detenuti a rischio: non metterli nella ‘cella liscia’, non togliere tutto ciò che potrebbero usare per suicidarsi, perchè il modo di farlo lo trovano lo stesso. Ancora: non controllarli in modo ossessivo e non minacciare di mandarli in “osservazione” all’Opg. Con tutti i detenuti, poi, è buona norma non creare “sezioni ghetto”, non sottovalutare i tentativi di suicidio e le autolesioni, non applicare sanzioni o punizioni in questi casi nè esprimere un giudizio morale in merito. Ecco invece cosa fare:  dare attenzione alla persona durante tutta la detenzione, aumentare le possibilità di lavoro e le attività e non considerare il suicidio in carcere come una malattia. Ancora: migliorare il contesto relazionale, pensare a una mediazione tra il detenuto e la sua famiglia, uscire dall’ottica assistenzialistica. Infine, si ricorda l’importanza di avviare una progettualità con il detenuto e di garantire formazione a tutto il personale.  

    Blefari/ Polemica sul suicidio, era pronta a collaborare. Aperta un’inchiesta

    Il 27 ottobre la condanna all’ergastolo era stata confermata dalla Cassazione. Il garante per i detenuti del Lazio, Marroni, aveva lanciato l’allarme gia’ il 10 ottobre 2007, definendo “sconcertanti” le condizioni della donna, delle quali aveva segnalato il progressivo deterioramento

    blefari

     

    Diana Blefari Melazzi, accusata di concorso nell’omicidio del professor Marco Biagi, e’ stata trovata impiccata nel carcere di Rebibbia.

    Il 27 ottobre la prima sezione penale della Cassazione aveva confermato la condanna all’ergastolo inflitta dalla Corte d’assise d’appello di Bologna. “Ora ci credono, ora chiamano tutti, prima non chiamava nessuno. Non ho proprio voglia di parlare: sono quattro anni che denunciamo le sue condizioni”: l’avvocato Caterina Calia, difensore di Diana Blefari Melazzi, non vuole aggiungere altro, “non posso dire cose ragionevoli”. Le condizioni mentali della terrorista, condannata all’ergastolo per l’uccisione il 19 marzo 2002 di Marco Biagi, erano state segnalate dagli avvocati ma anche dal Garante per i detenuti del Lazio Angiolo Marroni. L’ultima perizia era stata disposta in aprile e stabili’ che la Blefari poteva partecipare al giudizio.

    Il 27 ottobre la condanna all’ergastolo era stata confermata dalla Cassazione. Il garante per i detenuti del Lazio, Marroni, aveva lanciato l’allarme gia’ il 10 ottobre 2007, definendo “sconcertanti” le condizioni della donna, delle quali aveva segnalato il progressivo deterioramento. Arrestata il 22 dicembre 2003, Diana Blefari Melazzi era ricercata da quando venne scoperto il covo di via Montecuccoli a Roma, di cui era intestataria. Riconosciuta come “la compagna Maria” – che Cinzia Banelli indico’ fra le staffette che seguirono il professor Biagi la sera dell’omicidio – alla Blefari sono stati attribuiti il noleggio del furgone usato per la preparazione dell’omicidio e la partecipazione al pedinamento del professore a Modena. Sul suo portatile fu rivenuto anche il file con la rivendicazione dell’omicidio. Il prossimo 23 novembre sarebbe dovuta andare a giudizio per aver aggredito, nel maggio 2008 a Rebibbia, un’agente di polizia penitenziaria. Il rinvio a giudizio era stato disposto dal Gup Pierfrancesco De Angelis dopo che il perito, lo psichiatra Antonio Pizzardi, aveva stabilito che l’imputata e’ capace di stare in giudizio perche’ si rende conto dell’esistenza di un processo e delle sue conseguenze. La sua calligrafia era quella di una persona normale e l’ex br aveva risposto in modo equilibrato al test cui e’ stata sottoposta. Secondo l’esperto la Blefari Melazzi, la cui capacita’ di intendere e di volere era grandemente scemata al momento del fatto, era pericolosa socialmente, alla luce delle imputazioni formulate a suo carico.

    Diana Blefari Melazzi aveva fatto capire agli investigatori di essere disposta ad essere sentita su Massimo Papini, romano di 34 anni, attrezzista al cinema, arrestato qualche settimana fa a Castellabate alla Digos di Roma e Bologna, assieme ai colleghi di Salerno con l’accusa di partecipazione alla banda armata Brigate Rosse per il Partito Comunista Combattente. Papini, secondo gli inquirenti, era sentimentalmente legato alla Blefari Melazzi, secondo altri, tra i due c’erano soltanto una forte amicizia che durava da almeno quindici anni. La brigatista, arrestata dopo la scoperta del covo deposito di via Montecuccoli a Roma, avrebbe dovuto essere interrogata in questi giorni ma la condanna definitiva all’ergastolo firmata il 27 ottobre dalla Cassazione per il delitto Biagi aveva determinato uno slittamento dell’atto istruttorio. Alla Blefari Melazzi gli investigatori avrebbero chiesto informazioni circa una serie di contatti con Papini attraverso l’uso di schede telefoniche prepagate in maniera ‘dedicata’, ovvero effettuando chiamate dirette a un solo interlocutore per evitare che si potesse risalire all’autore delle chiamate. Una modalita’ – stando all’accusa – tipica dei brigatisti. Papini, tra l’altro, era stato trovato in possesso di programmi di criptazione per computer simili a quelli usati da altri appartenenti alle Br-Pcc. Attraverso i tabulati telefonici gli inquirenti hanno anche ricostruito una serie di spostamenti dai quali e’ emerso il contatto con la Blefari in occasione di attivita’ cosiddette di ‘organizzazione’.


    foto e testo tratto da affaritaliani.it             inserito da michele de lucia

     

     

     

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