I RITI SERVIVANO A FARE RETE. OGGI LA RETE FA I RITI. IL RACCONTO DI CIRO FERRIGNO

L’antropologia ci insegna che il rito,  letto nelle sue molteplici sfaccettature, conduceva sempre ad una serie di comunicazioni tra e per gli astanti. Una rete a tutti gli effetti. Oggi nelle condizioni che stiamo vivendo è  la rete che fa il rito. Lo stiamo toccando con mano con le processioni sonore e altro, la scuola ad esempio.

Questo racconto, della serie, che ci sta regalando il prof Ferrigno é una dimostrazione.

TROPPO TARDI

Dacché il mondo è mondo, nelle famiglie c’è sempre stato un momento in cui ci si incontra tutti, per un anniversario, una ricorrenza, una cerimonia, un lutto, Pasqua o Natale, la festa del Santo patrono. Perché mai una comunità non dovrebbe avere il suo momento di unità, di ritorno? Da noi questo avviene la Settimana Santa, in occasione delle processioni. Tornano tutti, ma proprio tutti, anche i morti! Sai, bene o male la processione è qualcosa che è rimasta uguale a sé stessa nei secoli e vederla passare ti prende e ti porta in un tempo indefinito, dove c’è la compresenza di generazioni, la presente, le passate, forse le future.
Ci sono tutti gli uomini che hanno fatto la gloria dei nostri cantieri, i costruttori, i naviganti, pure quelli che solcavano l’oceano su barchette cariche di arance, tenute a galla dalla Madonna delle Grazie, gli operai della seta, contadini, manovali, quelli che hanno costruito palazzi e ville, chiese e monasteri, campanili e campane senza badare a spese. Ci sono tutti i sacerdoti che nei secoli hanno somministrato sacramenti e panegirici, madri e suore, sindaci, grandi medici, artisti e uomini di cultura, soldati morti in guerra, ogni guerra, i morti per droga e quelli falciati dal cancro.
Certe volte la folla è tanta che non ci spieghiamo da dove viene tanta gente, c’è un senso di pienezza che non lo sai capire, un traboccare di volti, piedi e mani, mentre passano gli incappucciati, la Croce, i martiri, il coro del Miserere, quello dei bambini, la banda, le statue della Madonna Addolorata e del Cristo Morto. È un vortice di anni che passa quella Croce col panno bianco in questo giorno e l’hanno vista gli occhi di tutti, anche di quelli che sono andati via per vivere altrove, portandola nel cuore, pure quelli che l’hanno rinnegata!
Certi volti sono antichi di secoli e non li vediamo, passano in processione coperti dai cappucci, ci guardano dal tempo passato, vorrebbero parlare ma non possono. Altri, tutti gli amici ed i parenti che abbiamo perso per strada sono nelle somiglianze: da lontano giuri che sono loro, ma se ti avvicini, se vuoi abbracciarli, baciarli, ti rendi conto della svista e ci resti male.
Quando si sente il rullo dei tamburi, tutti ci disponiamo sui marciapiedi per vedere passare la processione, così pure fanno le anime dei morti, è un richiamo al quale nessuno può disobbedire, per ribadire l’appartenenza a questo popolo, alla sua storia, alla sua vita. L’apostolo Pietro ci lasciò una croce di pietra, noi abbiamo finito per amarla talmente da farla nostro totem, simbolo di questo popolo che ne ha fabbricate ancora di legno, di ferro, di pietra ed è andato a piantarle ovunque, come immagini d’un perduto amore. Già, il perduto amore!
La notte del Venerdì Santo è tutto un riecheggiare di colpi di tamburi, squilli di trombe, Inni e Miserere, si sentono dai quattro punti cardinali, quasi un voler festeggiare la morte, renderla dolce, perché non faccia più paura. Echi che nel buio più profondo, tra le due e le quattro, fanno venire i brividi. È una notte carica di magia, come un nastro teso tra i secoli, un modo per attraversare il tempo senza farsi male, un filo di Arianna che riconduce al perduto amore, perché ogni uomo nasce col destino di perdere l’amore, di portarsi dentro quella malinconia struggente, di rimpiangerlo, proprio come si fa col Cristo, dopo averlo ucciso.
Ma è troppo tardi per rimediare, ci vuole un’altra vita!

Le foto sono di Diego Ambruoso, che ringrazio

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