È morto Pietro Anastasi, campione della Juve. Simbolo del Sud a Torino

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La notizia di apertura di tutti i giornali italiani in queste ore, L morte di Anastasi, campione bianconero della Juve, quando nella zebra erano tutti i quai del sud. Torino – Erano piene di nebbia, a quel tempo, le mattine d’inverno a Torino, ed era dura rimettersi a battere la lastra nel reparto presse della Fiat, scrive Repubblica . Ma c’erano giorni diversi, c’erano i magici lunedì in cui l’operaio “terùn”, naturalmente juventino, poteva dimenticare ogni gelo nella strada e nel cuore, ogni amarezza, ogni sporca fatica della vita grama. Perché la domenica la Goeba aveva vinto. E al centro dell’attacco di quella squadra c’era lui, Pietro Anastasi da Catania, Pietruzzu, Pietro ‘u turco. «Mi chiamavano così perché d’estate mi bastava il primo sole per diventare più nero del carbone».

Se n’è andato dopo due anni di battaglia contro un tumore di cui aveva parlato senza reticenze, con quella voce timida e come indecisa, le parole inciampavano anche da ragazzo tra le labbra di Pietruzzu che non era mica un oratore, lui era un centrattacco. Nella Juve che stava rinascendo prima con Vittore Catella, poi con Allodi e Boniperti, esisteva una proporzione di meridionali pari a quella della Fiat se non superiore.

Il siciliano Anastasi, il sardo Cuccureddu, il siciliano Furino (non di nascita ma di sangue), il pugliese Causio che Gino Rancati a Novantesimo Minuto chiamava Caùsio, sbagliando l’accento. Di tutti loro, Causio detto “il Barone” oppure “Brasìl” era il più fantasioso, ma Anastasi il più amato dalla gente. Perché segnava in acrobazia, con quelle rovesciate che incendiavano il vecchio Comunale, e perché aveva un cuore enorme. Magari non proprio impeccabile nello stop a seguire, ma perfetto nello scambio veloce, nel lavoro pulito e anche in quello sporco, quando l’attaccante non ha paura di sgobbare quanto un gregario.

Nella Juve vinse molto più che nell’Inter, dove Boniperti lo mandò per prendersi in cambio Boninsegna che davano per finito e invece era ancora formidabile, e vennero scudetti e la Coppa Uefa, e dove invece Anastasi invecchiò in fretta. Ma anche la nazionale gli diede una gioia grande, il titolo europeo nel ’68 quando Pietro ‘u turco segnò nella ripetizione della finale contro la Jugoslavia.

Il cittì Valcareggi lo riteneva il più forte numero 9 di tutti, il titolare dell’Italia e il compagno perfetto per Gigi Riva. Infatti doveva andare lui, al mondiale messicano del mito. Ma pochi giorni prima della partenza, lo scherzo di un massaggiatore che gli diede un colpo sui testicoli gli cambiò il destino: Anastasi dovette essere operato d’urgenza, niente più Messico ’70 dove venne invece chiamato Boninsegna (ancora un fatale incrocio di strade, tra loro) che già stava partendo per il mare. Il popolare Bonimba chiese se non fosse tutta una burla come quella appena uscita su qualche giornale: una fuga d’amore con Raffaella Carrà! Niente di vero, naturalmente. Finì con Anastasi in clinica e Boninsegna in campo, mitico protagonista di Italia-Germania 4-3 (aprì le marcature dopo 8 minuti) e autore dell’unica rete azzurra contro il mostruoso Pelé.
Pietruzzu piaceva molto all’avvocato Agnelli, che allo stadio voleva divertirsi con i giocolieri e che cercava la pace sociale nelle sue fabbriche: anche per questo non prese Maradona, per non indispettire i sindacati. Le sforbiciate del centravanti siciliano erano qualcosa di barocco, piene di colore e stupore. Una volta segnò tre gol alla Lazio in una manciata di minuti, nel finale di una gara emozionantissima. La sua media è di quelle che restano: 338 partite e 105 reti in serie A, ben poche banali. Era un opportunista d’area, un fascio i muscoli governati dall’istinto, Un calciatore di sangue in una stagione di attaccanti spaventosamente bravi, da Gigi Riva a Bonimba, da Paolino Pulici a Pietruzzu che saltava come se fosse di gomma. Tra gli occhi, nelle figurine Panini aveva come una macchia scura, pareva Sandokan, e sopracciglia foltissime. «I tifosi avversari mi dicono terrone ma io non mi arrabbio, non è mica un insulto, e comunque io guadagno più di tutti i polentoni messi insieme». Nell’Italia che stava cambiando pelle, anche un giocatore di pallone poteva far saltare le marcature delle divisioni sociali.

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