Meta, la spiaggia di Alimuri : Testimone di un tempo passato

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Testimone di un tempo passato

(la spiaggia)

Sono scura, ma non sono migrante; è da secoli che guardo e ricordo. Già; ricordo le cose che ho visto vivere a lungo in compagnia di gente contenta di poco, in compagnia di barche a riposo, di gente affannata per rimettere in ordine gli strumenti del proprio mestiere. Dal paese venivano a me persone di ogni arte e mestiere: contadini, ciabattini, massaie, garzoni, professori, insegnanti, bottegai, postini, medici e speziali, ferrovieri, tranvieri e “trainieri”; tanta gente che si distendeva e parlava serena, senza misteri. Mi assestavo senza fare rumore e ascoltavo, ascoltavo impregnandomi di mille ricordi. Sono la spiaggia e comincio il racconto. Non parto da troppo lontano, parlerei degli assenti che non posso svegliare; mi han conosciuta e parlato di tutto. Ora dormono in pace, quella pace che mi sfugge di mano. Basta un secolo e ne avanza. Ci provo: scarnita, ridotta in miseria, ma memore ancora di agi e disagi!

Son la spiaggia, si, ma non mi sono presentata: sono la spiaggia di Alimuri ed ho come vicina di casa la spiaggia di Meta con la quale, tutte le volte che potevo, facevo quattro “chiacchiere” intrufolandomi sotto un ponticello. Da amiche ci scambiavamo piccoli favori che ci davano soddisfazione e vita. Quando pioveva a dirotto e arrivava la lava ricca di sabbia, una sabbia pulita che veniva dai colli, me ne passava con garbo quanta ne bastava per coprire le falle dell’ultima mareggiata. E già, la marina di Meta ha un porticciolo, è protetta e sorride contenta quando imperversa il libeccio che invece mi tormenta bagnandomi tutta, graffiandomi in lungo ed in largo. Ricordo come i pescatori e gli artigiani accorrevano per portare più in alto possibile, lontano dall’onde, sia barche che attrezzi. Non mi lamento più di tanto; succedeva solo un paio di volte l’anno e serviva pure per lavarmi la faccia con l’acqua pulita del mare. Per il resto dell’anno erano idilliaci i rapporti col mare: mille carezze, baci ed una canzone fatta di note mai uguali ed al bagnasciuga eravamo in due a specchiarci come Narciso: io ed il mare! Già, il mare mi voleva veramente bene e quando la notte mi metteva i brividi addosso, lui, che di giorno aveva intascato tanto calore, mi consolava con le sue calde carezze aiutandomi ad aspettare l’alba e, poi, il sole che mi faceva rovente; ero scura, l’ho detto, e mi scaldavo per niente da far bruciare i piedi di chi mi camminava sulla “pancia”.

Come dicevo, oltre a sentire i racconti della gente, per decenni mi son guardata intorno ed ho visto tante cose cambiare. Guardando il mare alla mia destra c’era e c’è ancora una montagna di roccia calcarea. C’è ancora, ma è molto diversa da quella che ricordo. Per anni ho sentito, dalla mattina alla sera, tremende esplosioni; vedevo la montagna tremare ed un polverone coprire alla vista una pioggia di pietre che cadevano ammucchiandosi giù alla mia destra. La loro storia non si fermava a quel mucchio; continuava senza sosta. Sembrava una chiesetta, accoccolata su di un pianoro roccioso di punta scutolo, ma era una macina con un rumore sordo, noioso; le pietre salivano, così mi sembrava, al “campanile” di quella chiesetta e poi si “tuffavano” nel vuoto fra duri ingranaggi per uscirne in mille frammenti. Non lo sapevo me l’han raccontato gli anziani del posto che cercavano di spiegarlo ai ragazzi; l’ho già detto, sono la spiaggia e non conosco il mondo degli uomini sono questi, per esempio, che mi han fatto capire cos’era quella casa rotonda sistemata giù in fondo, vicino alla cava. Era una fornace per trasformare la pietra in calce; poi fu abbandonata diventando ricovero per povera gente. Come potete immaginare non sono mai entrata la dentro, ma son certa che non poteva esser comoda. Nella zona, ho saputo che la montagna è di pietra calcarea; è per questo che le pietre si trasformano in calce. Alle mie spalle, a sinistra, vi è da sempre un alto costone di pietra tufacea. Ho sentito dire che è di origine vulcanica consolidatasi per millenni diventando una pietra consistente molto utile per costruire le case. Normalmente a scavare le grotte ci pensa il mio amico, il mare. Invece, per centinaia di anni, ho visto gli uomini aggredire i costoni estraendo una quantità enorme di pietre che venivano portate via a dorso e poi, più avanti nel tempo, coi muli. Le grotte diventavano sempre più grandi per costruire le case sia di Meta che di altri paesi. In quelle grotte ho poi visto collocarsi artigiani famosi per costruire le barche da pesca: gozzi, lance, sandolini, ecc. Nelle vicinanze son state sempre poche le case; non era agevole scalare il costone; solo una piccola strada, poco più che una mulattiera, “i pennini” lungo la quale vedevo la gente, grandi e piccoli, caracollare col fiatone fin su prima di scomparire ai miei occhi.

Calpestata di giorno, tranquilla di notte anche la spiaggia ha suoi momenti romantici, i suoi rapporti amorosi. Al chiar di luna, vedevo (ora che vi parlo, non più) sulla mia “pelle” le dolci ombre di barche dalle leggiadre, carezzevoli forme, mentre la brezza notturna increspava appena la superficie del mare che “specchiettava” la luna portando a riva una scia di dolci e caldi baci. Continuando ancora per un po’ a parlare di me, mi vien da pensare che ero qui ancor prima di Cristo Signore; ho cambiato la pelle e la forma un “milione” di volte cercando di adattarmi ai tempi, rispettata e rispettosa. Il “tempo” qui, da sempre, arriva dal mare. A queste coste, calpestandomi tutta, è approdato l’oriente lasciando tangibili segni, mi dicono. A questo proposito mi sovviene un discorso ascoltato tanti anni fa: si era al tramonto ed un nonno, seduto sulle pietre levigate dal mare, raccontava storielle al nipote incantato. Sentii dire che un giorno erano arrivate dal mare delle navi straniere con tanti uomini armati. Un pescatore aveva dato l’allarme e la popolazione si era unita per proteggere case e famiglie. Fu una lotta difficile, ma gli invasori furono respinti, mentre il loro capo Ali non voleva mollare. Un ardito Metese lo affrontò con coraggio e, dopo lungo periglio, lo ferì mortalmente gridando: “Ali muori”. Da quel tempo mi chiamo “Alimuri”. Così pure io, da sempre italiana, (si fa per dire!) mi ritrovo con un nome straniero! Questo è il meno, però, perché ne ho viste di “cotte e di crude”; è dal mare che in queste contrade arrivava di tutto: merci e genti di altra cultura bisognose di spazio, ma, spesso animate anche dal desiderio omerico di scoperta, di incontro per saperne di più, per prendere e dare. Da sempre ho saputo che in paese si vedono ancora i segni di tutte queste “invasioni”: nelle case, nella fisionomia della gente. Tante volte, la sera, quando tutto è più calmo, ho visto persone camminare rilassate in riva al mare chiacchierando liberamente fra loro portavano, coi loro discorsi, sempre più avanti quanto ascoltato dai padri, da nonni e bisnonni. E’ così che ho saputo che le case di tufo sono ricche di archi con camere a volta, i terrazzi ingobbiti per ridurre carichi inutili, le cisterne per raccogliere la preziosa acqua piovana ed i cibi, speziati, ricchi di sapori esotici. Come vedete lo stile è Arabo e c’è poco da fare gli schizzinosi, presuntuosi onniscienti. Non posso stare qui a raccontare tutto quel che ricordo; non basterebbero mille e più pagine ed i fatti salienti perderebbero forza. Una statua esotica, l’aveva trovata una pastorella sotto un albero d’alloro (il lauro, insomma); era lì con in braccio il bambino Gesù ed ai piedi una chioccia coi suoi pulcini. La chiamarono Madonna del Lauro e fu ed è venerata come padrona del mare, protettrice dei naviganti. Fu costruito un maestoso santuario a Lei consacrato che svetta in paese, maestoso; lo vedo anch’io dalla spiaggia e ne ascolto da sempre il suono disteso e armonioso delle sue due campane; era una musica dolce alla sera quando finiva il lavoro nei campi e, al mattino alle sei, una sveglia discreta di pochi rintocchi accordati. Pensandoci bene, piano piano, nel tempo la Madonna ha dato il suo nome a mezzo paese: Maria, Marialaura, Laura, Immacolata, Concetta, Mariaconcetta, Mariaros, ecc. Anche i ragazzi, nel tempo hanno attinto a Maria; non son pochi quelli che si chiamano Mario e Mariano. In segno di devozione, una volta costruita la strada che dal paese porta alle marine, da me come alla marina di Meta, sul costone alto, sulla curva che divide la strada , si costruì un monumento dove, con grande partecipazione di fedeli, fu posta una statua della Madonna, una copia più piccola. Spesso ho sentito dire: ci vediamo più tardi, alla Madonnina. E’ un posto panoramico molto suggestivo; credo che di là si veda molto bene tutta la penisola sorrentina, certamente meglio di come posso goderla io, qui dal basso, dalla battigia, ma va bene così, mi accontento; ad ognuno il suo!

Ritornando un po’ indietro, sento il dovere di parlarvi di un fatto saliente durato nel tempo per decenni, almeno fino alla metà del secolo scorso.

Come vi ho spiegato prima, la spiaggia non era collegata al paese con comode strade ed anche le comunicazioni con Castellammare, Napoli, Salerno, Amalfi ed altri dintorni erano difficoltose. A risolvere il problema, nei limiti del possibile, ci pensava il mare che aveva visto nascere piccoli approdi a Meta, Piano e Sorrento. Per costruire barche da pesca e diporto, provvedevano i “maestri d’ascia” capaci, come scultori, di ridurre nelle forme richieste ogni tipo di legno. Come ho già detto, questi “artisti” lavoravano nelle grotte profonde scavate nel tufo. Ma le merci ingombranti e quelle pesanti avevano bisogno di “natanti” adeguati. Per questo motivo, vidi crescere i fretta alle mie spalle e lontano dal mare un grande palazzo a due piani: pian terreno e primo piano. Era alto e bianco e sul frontale vidi scritto, in maniera vistosa, il mio nome; diventammo fratello e sorella, io “spiaggia Alimuri” e lui “Cantieri Alimuri. Per quanti anni ci siam fatta compagnia! Lui mi dava ombra al mattino ed io lo proteggevo sempre dal mare aggressivo! Un ragazzo grandicello che si era intrufolato al pian terreno del cantiere, un giorno si mise a parlare con un “nastro d’ascia” suo vicino di casa che gli spiegava cosa erano i grandi disegni che il ragazzo aveva visti per terra in un grande salone al primo piano. Sono i disegni delle ordinate dei “paranzielli” gli disse don Ciccio; sono fatti in grandezza naturale in modo da poter controllare la precisa fattura pezzo per pezzo, Tonì. Si chiamava Antonino il ragazzo come il 50% dei ragazzi della penisola in omaggio ad un santo che aveva un o sguardo di riguardo per gli orti ed i giardini di agrumi; non era di Meta ma di Sorrento dove aveva una bella basilica.

Quel ragazzo l’ho visto tante altre volte assieme ad un altro gruppetto. Si appartavano all’ombra delle grosse paranze per asciugare il sudore prima di tuffarsi nell’acqua cristallina del “mio mare”. Era bello vederli contenti sulla spiaggia a giocare con niente! Erano seguiti dai genitori che facevano di tutto perché il mare fosse utile alla loro salute proiettando nell’inverno freddo ed umido i benefici del sole e dello iodio distribuito dalle onde del mare.

Francesco Saverio Pollio

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