Napoli. “GLI ECHI DI DONN’ANNA E DEL SUO PALAZZO”. Testo di Franco Lista.

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    Segnalazione di Maurizio Vitiello – Riceviamo e, volentieri, pubblichiamo il testo “GLI ECHI DI DONN’ANNA E DEL SUO PALAZZO” di Franco Lista, forte intellettuale, architetto e artista.

    La relazione affettiva che ci lega alla nostra città non è solo qualcosa d’innato negli abitanti. L’amore per Napoli va coltivato, così come la nostra identità ha bisogno di riconferme quotidiane. Per questo penso a una recente occasione che si è presentata di visitare Palazzo Donn’Anna: una circostanza che ha rinnovato ai miei occhi il felice rapporto di reciprocità tra la straordinaria architettura del Fanzago e il paesaggio di Napoli.

    Arrivare a Palazzo Donn’Anna e, un po’ prima, affacciarsi sul mare, percepire della storica dimora un lato solo, quello che ancora mostra i segni dell’incompiuto per penetrarne l’essenza, l’incarnazione di senso che è dentro il tufo, serve a capire, ancora una volta, come la natura si tramuti in cultura.
    Il banco tufaceo della costa è, per riproporre la bella considerazione di Eduardo Cirlot, “la prima solidificazione del ritmo creatore…è la musica pietrificata della creazione”, così come Goethe scriveva per l’architettura considerandola “musica ammutolita”.
    Singolare e impegnativa dovette essere la committenza del viceré Ramino Guzman, rivolta al cavalier Cosimo Fanzago per la straordinaria dimora destinata alla moglie Donn’Anna Carafa; sembra quasi essere lo svolgimento di un tema architettonico che mette insieme, in un unico connubio, le belle definizioni dei due pensatori che ho citato. Una sorta di concreta, tangibile correlazione di un tema filosofico che appassiona ancora, fortunatamente, non pochi architetti.
    L’invenzione fanzaghiana, tutta ambientalista, consiste nello scandagliare le caratteristiche del luogo per trarne indicazioni che sono riassunte, in modo fulminante, nella popolare locuzione “nu pere ô nfuso e n’ato all’asciutto”, indicativa di questo transito dal mare alla terra, poiché a Palazzo Donn’Anna si arrivava in barca.
    “In palazzo donn’Anna – ha scritto Gaetana Cantone nel suo bel libro su “Napoli barocca e Cosimo Fanzago” – il canale d’acqua nel banco tufaceo viene utilizzato per i collegamenti con il piano a quota strada e la facciata, con profonde arcate, è un fondale atto a proteggere gli ambienti retrostanti dal mare”.
    Basta dare uno sguardo alla mappa topografica di Giovanni Carafa duca di Noja, per rendersi conto che l’accesso alla dimora vicereale era dal mare sul quale si affacciava il fronte principale con loggiati, archi e nicchie in una atmosferica e teatrale apertura sul golfo.
    La bella strada di Posillipo, infatti, sarà costruita più tardi per decreto di Murat, nel 1812, allo scopo di collegare meglio la città con i campi Flegrei e Pozzuoli.

    La storia del Palazzo è piuttosto intricata: dalle sontuose, seicentesche feste vicereali fino a una condizione di degrado tale che “vi si stabilirono i gufi, vi si nascosero malandrini … Il volgo confuse donn’Anna con la regina Giovanna”, come scrisse Michelangelo Schipa nel 1892. Ancor prima il Palazzo fu destinato a una fabbrica, malinconicamente descritta nella seconda metà dell’Ottocento, dal Chiarini: “Il fumo che n’esce continuamente per esservi stabilita una fabbrica di vetri, la tinta bruna delle fracassate muraglie, gli screpolati cornicioni … ma il vederlo negletto, rovinoso, inabitato quasi cadente danno a questo edificio un aspetto di antichità”.
    Un aspetto molto simile a rovine antiche, peraltro già presenti lungo la costa di Posillipo; un’immagine dunque suggestiva, di ruderi e natura intimamente connessi, tale da invitare molti degli artisti, da Gaetano Esposito a Giuseppe Casciaro, che si dedicavano al vedutismo, ad assumere Palazzo Donn’Anna come seducente soggetto dei loro dipinti.
    Penso soprattutto a Gaetano Esposito che oltretutto vi abitava stabilmente e aveva finanche dipinto una Madonna in una delle nicchie esterne della sua dimora. Un soggetto molto replicato proprio per quell’aspetto fatto – come ha scritto Vincenzo Trione – di “mura consumate, nicchie vuote, finestre cieche, archi aperti sul golfo, grotte scolpite dal vento”.
    Il protagonista materico della scena è il tufo, quella pietra di un particolare giallo che incantò Thomas Jones, a Napoli nel 1778, pittoricamente sedotto dalle facciate in tufo nudo, alla luce del sole, delle povere case napoletane.
    Questa stessa attrazione mi spinse a sostare sulla strada, prima ancora di entrare nel Palazzo, per apprezzare con gli occhi di Ruskin proprio il lato incompiuto dal quale affiora ancora il tufo.
    “I materiali diventano architettonicamente validi soltanto se l’architetto è capace di conferire loro un significato estetico”. Questa efficace e chiara riflessione di Pevsner mi veniva in mente e trovava in Palazzo Donn’Anna una sorta di esemplificazione proprio nella correlazione tra il tufo che conferisce forma all’architettura e il tufo della costa posillipina su cui si fonda.
    Ecco uno straordinario, storico contributo alla costruzione del nostro bel paesaggio i cui echi affettivi e sentimentali si fecero sentire in quella splendida passeggiata che ebbi modo di fare.

    Franco Lista

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