Canada. Il 60enne Roberto Zanda congelato alla maratona tra le nevi. La lotta per salvargli mani e piedi

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Piedi e mani sono fasciati con bende bianche: congelamento di quarto grado. Il dolore si è fatto a tratti insopportabile. La sfida dei medici è provare a evitare l’amputazione. Roberto Zanda, ultrarunner cagliaritano 60enne sa di essere vivo per miracolo, dopo essere sopravvissuto per quasi 17 ore nella foresta canadese a temperature fra i 40 e i 50 gradi sottozero. Per resistere si è aggrappato all’ultimo soffio di vita «agli affetti e alla fede» racconta. Partecipava alla Yukon Arctic Ultra 2018, la più fredda e dura maratona del mondo con i suoi 480 chilometri da percorrere a piedi in condizioni estreme. Il 7 febbraio l’incidente che gli è quasi costato la vita. Lui lo chiama «inconveniente tecnico» e su Facebook scrive: «La sofferenza aiuta a vivere meglio, spero di trovare due bei piedi che mi permettano di continuare questa bella vita fatta di sport e resilienza». Roberto Zanda, «Massiccione» come lo chiamano tutti, dopo essere stato curato all’ospedale di Whitehorse in Canada, da ieri si trova all’ospedale di Aosta nel reparto di chirurgia vascolare diretto da Flavio Peinetti: «Stiamo ipotizzando di sottoporlo a un autotrapianto di cellule dal midollo osseo direttamente nella zona colpita». Di lui si occuperà l’équipe multidisciplinare dell’ambulatorio di medicina di montagna coordinato da Guido Giardini: «Si tratta di congelamenti gravissimi, lo scopo è limitare i danni e salvare il possibile. Il paziente è trattato con farmaci anticoagulanti e vasodilatatori. Qualsiasi altro sarebbe morto in mezzo ai ghiacci, lui invece ha un fisico eccezionale, una tempra fuori dal comune che lo ha salvato». La Yukon Arctic Ultra, anche per le temperature gelide, è fra le più estreme e pericolose gare al mondo. Si partecipa a piedi, con gli sci o in mountain bike. Zanda era uno dei 30 atleti che gareggiavano a piedi, trainava una slitta con viveri, tenda e un Gps per essere sempre localizzato. A quelle latitudini, al confine con l’Alaska, la luce dura appena 4 ore, le altre 20 ore sono avvolte nell’oscurità e gli atleti avanzano con le pile frontali. Massiccione camminava già da sei giorni, davanti a lui solo un atleta sudafricano, tutti gli altri si erano già ritirati a tre giorni dalla fine. Zanda racconta di non aver più visto la segnaletica: «Forse ero annebbiato per la stanchezza — racconta dal suo letto di ospedale — sono andato avanti e indietro per controllare. Per essere più agile nella ricerca mi sono sganciato dalla slitta. Ho intravisto un capanno, mi sembrava di scorgere una luce, ma sono caduto in un fossato». È molto probabile che l’ultrarunner, già in ipotermia, sia rimasto vittima di allucinazioni. Per lui inizia un incubo, amplificato dal gelo: «Sono sprofondato nel ghiaccio fino all’ombelico, mi sono tolto gli stivali per svuotarli dalla neve, ma le calze erano incollate ai piedi, ormai troppo gonfi per riuscire a rimettere gli scarponi. Ho tolto i guanti per scaldare le mani ed erano gialle. Ho capito che stavo per morire congelato, ma con tutte le mie forze mi sono trascinato fuori dal buco, volevo vivere». I soccorritori lo hanno trovato scalzo, senza guanti. Ora la sua compagna, Giovanna Caria, accusa gli organizzatori della gara: «Il Gps di Roberto era fermo da ore. Ho più volte sollecitato di andare a cercarlo, mi dicevano che stava riposando. Dicono che aveva le allucinazioni, per questo non trovava più la strada: perché allora non lo hanno fermato all’ultimo check point, poco prima dell’incidente, se stava così male?». (Cristina Marrone – Corriere della Sera)

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