Alla ricerca di Spinoza (0). Il filosofo maledetto ebbro di Dio foto

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    Secondo la decisione degli angeli e del giudizio dei Santi, bandiamo, scomunichiamo, malediciamo e cacciamo Baruch de Espinoza […] Sia maledetto nel giorno, sia maledetto nella notte, sia maledetto quando si posa, sia maledetto quando si leva, sia maledetto se esce, sia maledetto se entra […] A voi che siete fedeli al Signore, al vostro Iddio, che siate oggi benedetti, ordiniamo che nessuno abbia rapporti orali o scritti con lui, che nessuno lo soccorra, che nessuno rimanga con lui sotto un sol tetto, che nessuno gli si avvicini più di quattro passi, che nessuno legga uno scritto redatto o pubblicato da lui”.

    Era il 27 luglio 1656, quando il bando di scomunica di Baruch Spinoza (Bento per gli amici) fu pronunciato nella sinagoga di Amsterdam. Bento aveva allora ventiquattro anni, era nato il 24 novembre 1632, ed era già stato ripetutamente invitato dai rabbini a non esprimere pubblico dissenso sull’interpretazione della Bibbia. I rabbini, per evitare lo scandalo di apostasia, gli avevano consigliato di frequentare le assemblee e la sinagoga e, soprattutto, di stare zitto. Giunsero a offrirgli una pensione annua di mille fiorini (l’equivalente di circa dodicimila euro) pur di farlo rientrare nei ranghi. Evidentemente, la permanenza nella comunità e la fedeltà di un giovane del talento e della cultura di Spinoza erano essenziali per il prestigio della comunità ebraica di Amsterdam. 

    Ma, come Spinoza ebbe in seguito a dire, quand’anche gli avessero offerto una cifra dieci volte superiore, egli non avrebbe potuto accettare e si sarebbe comunque rifiutato di partecipare, contro coscienza, alle riunioni e riti della comunità perché non era un uomo incoerente e ipocrita.

    In quel periodo, la tensione con la sua comunità era giunta a limiti insostenibili. Una sera mentre camminava intabarrato in un pesante cappotto nei pressi della sinagoga, Spinoza fu accoltellato da un fanatico religioso. La pugnalata non raggiunse il corpo di Spinoza, che si scansò, ma lacerò una parte del cappotto. Dopo questo episodio, Spinoza non si sentì più al sicuro ad Amsterdam e decise di ritirarsi in un luogo tranquillo dove poter continuare a studiare e a scrivere. 

    Gli restavano da vivere ventuno anni (morì a 45 anni all'Aia il 21 febbraio 1677) che trascorse, alloggiando in camere in affitto, prima a Rijnsburg, poi a Voorburg, sobborgo dell'Aia, e quindi dal 1670 definitivamente nella stessa città dove visse sino alla sua morte mantenendosi con il suo lavoro di tornitore di lenti per telescopi e microscopi.

    Spinoza fu fortunato a vivere in Olanda a quei tempi un’isola di tolleranza nel tempestoso mare degli aspri conflitti e delle violenze religiose. A parte la proscrizione civile e morale e la regola autoimposta di usare cautela, Spinoza non corse grossi rischi. Immaginiamo cosa gli sarebbe successo se fosse vissuto in Italia: avrebbe fatto la stessa fine di Giordano Bruno arso sul rogo qualche decennio prima. 

    Se non proprio Spinoza, i suoi ascendenti avevano avuto modo di sperimentare “il calore dell’amore cristiano” dell’Inquisizione cattolica. Originari della Spagna, gli avi di Spinoza dovette sottostare, insieme alla comunità ebraica di circa 800.000 persone, all’ordine di Ferdinando d’Aragona di convertirsi al cristianesimo o emigrare altrove. In molti si ‘convertirono’ al cristianesimo ma ben presto scoprirono che la conversione non li metteva al riparo dall’intolleranza fanatica: in migliaia furono arsi al rogo dall’Inquisizione spagnola. Un gruppo numeroso, forse 120.000 ebrei, emigrò nel vicino Portogallo: fra questi c’erano anche gli ascendenti di Spinoza. L’accoglienza di questo numeroso gruppo di profughi fu terribile: ventimila bambini furono sottoposti a battesimo forzato e duemila ebrei furono massacrati in un solo infame giorno a Lisbona. Le autorità portoghesi mostrarono di saper far meglio dei vicini spagnoli nel trovare e bruciare i nemici della fede, meritandosi, presumibilmente, il plauso di Roma. 

    Nel 1590 la famiglia di origine di Spinoza finì nel mirino dell’Inquisizione. Incerti sul futuro che li attendeva in Portogallo, Isaac Spinoza, il nonno paterno di Bento, riunita la famiglia, fuggì verso nord, o, come riferiscono le fonti custodite negli archivi dell’Inquisizione, “scappò prima del perdono”. I suoceri di Isaac scelsero di restare in Portogallo e di ricevere il perdono che assunse la forma della prigionia e della tortura.

    Ma torniamo al giovane Bento. Quali erano le sue idee che tanto turbavano i rabbini di Amsterdam? Bento, che aveva trascorso l’infanzia intento allo studio della Bibbia, con il passare degli anni era diventato un fervente studioso di Cartesio. Egli fece propria la massima del filosofo francese “Niente deve essere ammesso come vero, a meno che sia sorretto da valide ragioni” e non impiegò molto tempo a concludere che questa massima minava dalle fondamenta gran parte della Bibbia che tanto a fondo aveva studiato. Rispondendo a una coppia di presunti amici che erano invece spioni per conto dei rabbini, Spinoza ammise di rigettare la dottrina dell’immortalità dell’anima individuale e di ritenere che la Bibbia fosse opera umana e non divina. I rabbini certo non potevano tollerare che un giovane ebreo andasse in giro a insinuare dubbi nella mente della gente sulla Bibbia e l’immortalità dell’anima. 

    Per gli ebrei dell’epoca, proprio come i cristiani di allora, simili idee erano spaventose eresie che gli ebrei punivano con la scomunica e i cattolici con il rogo.

    Abbiamo visto prima che, a seguito della scomunica, insicuro nella sua città di origine, segregato dai propri conoscenti e preoccupato della propria incolumità, Bento aveva lasciato Amsterdam per posti più tranquilli dove dedicarsi in pace alla ricerca filosofica. Negli anni a Rijnsburg, a Voorburg e all’Aia, Spinoza condusse una vita semplice e frugale. Viveva in camere in affitto, si vestiva in modo ordinario, si accontentava di una dieta essenziale fatta di zuppe, latte, pane, burro e qualche boccale di birra. Quegli anni furono caratterizzati dall’attività artigianale e da periodi prolungati di solitudine pensosa e feconda. Lucas, uno dei suoi primi biografi, racconta che una volta, immerso nelle sue speculazioni filosofiche, Spinoza arrivò a stare per tre mesi interi senza uscire da casa. Però non era per natura un solitario ma un uomo di buona compagnia, onesto, affabile. Lo spirito penetrante e il senso dell’ironia lo rendevano persona amabile e affascinante. Teneva una fitta corrispondenza e frequenti incontri con amici ed estimatori che venivano anche da molto lontano per incontrarlo.

    Nonostante avesse adottato il motto ”Caute”, cioè “sii prudente” o “agisci con prudenza”, nel 1670, Spinoza osò pubblicare in latino, peraltro anonimamente e con indicazione falsa dell’editore, il ‘Trattato teologico-politico’ dedicato alla critica della Bibbia e alla difesa della libertà di pensiero in uno stato democratico. I filosofi e teologi dogmatici non faticarono molto a individuare l’autore: feroci critiche e attacchi verbali si concentrarono su Spinoza da tutte le varie correnti religiose. Cattolici, ebrei, calvinisti, normalmente in feroce lotta tra di loro, concentrarono la loro innata intolleranza verso un solo uomo che si permetteva di mettere in dubbio la verità rivelata.  Liber pestilentissimus, blasfemo e pericoloso, pieno di abomini deliranti e di idee forgiate all’inferno, da seppellire subito nell’eterno oblio: queste furono le reazioni dei circoli intellettuali dominanti alla pubblicazione del trattato. L’autore era definito bestia esotica, stupido diavolo, cieco ciarlatano, sempliciotto mascherato e anche brigante assassino della ragione e della sana scienza. 

    Ma accanto agli attacchi personali, un’altra strategia era messa in atto per evitare che Spinoza continuasse a turbare il quieto vivere del gregge e dei pastori. Già i rabbini della sinagoga avevano cercato di comprare la libertà di filosofare di Spinoza offrendogli un congruo vitalizio, ora è il potere politico a cercare di ‘silenziare’ il filosofo. Il Principe Elettore Palatino gli offre la cattedra di professore di filosofia in una delle più prestigiose università europee, quella di Heidelberg. Nella lettera di offerta dell’incarico si garantisce ‘ampia libertà di filosofare’ ma si chiede espressamente di ‘non abusare di quella libertà allo scopo di perturbare la religione pubblicamente professata’. L’incarico a Heidelberg sarebbe stato accolto con entusiasmo da qualsiasi professore di filosofia, ma non fu accettato da Spinoza. Nella risposta ferma e pacata, Spinoza scrive: ‘ […] io non so entro quali limiti debba intendersi compresa quella libertà di filosofare affinché io non sembri voler perturbare la religione pubblicamente professata […] per cui io non declino l’invito per la speranza di miglior fortuna, ma per amore della tranquillità che in nessun altro modo credo di potermi assicurare se non astenendomi dal pubblico insegnamento’.

    A Spinoza non interessavano il successo, i soldi, gli onori, la vita agiata, quello che gli stava a cuore era la libertà di filosofare senza alcuna costrizione da parte del potere. 

    Altri grandi filosofi erano invece ben inseriti nel sistema di potere dominante e non godevano di questa libertà. Prendiamo per esempio Leibniz e Hegel. 

    Leibniz era al servizio del Barone Boineburg prima e del Duca di Norimberga poi. Da buon cortigiano si adeguava alle richieste del padrone di turno. Boineberg, per esempio, chiese una volta al suo brillante consigliere di mettere filosoficamente al tappeto i teologi protestanti che continuavano a stuzzicarlo per via della sua conversione al cattolicesimo. Leibniz, pur non essendo cattolico, prese carta e penna e stese una serie di saggi dal titolo “Dimostrazioni cattoliche” in cui difendeva tesi dottrinarie tipicamente cattoliche focalizzando la propria dissertazione sulla dottrina della transustanziazione (il pane e il vino che diventano corpo e sangue di Cristo).  Verrebbe da chiedersi quanto in questi scritti sia libera espressione della mente del filosofo e quanto invece sia ‘la deliverable del contratto’ cioè l’esito del lavoro commissionato dal suo padrone. 

    Hegel, titolare della cattedra di filosofia all’università di Berlino, stava sempre attento a rimanere nel recinto della correttezza teologica – politica. Egli aveva tratto lezione da quanto accaduto al suo amico Fichte che era stato rimosso dalla cattedra di filosofia a Jena perché accusato di scrivere filosofia atea. Forse è proprio per non farsi capire dai teologi dogmatici ficcanaso, Hegel scriveva in modo esoterico, oscuro e incomprensibile. 

    L’astrusità degli argomenti di Hegel è ironicamente evidenziata da De Sanctis nel saggio in forma di dialogo ‘Schopenhauer e Leopardi’, in cui appunto, è esposta l'opinione di Schopenhauer secondo cui per istupidire un giovane non bisogna far altro che dargli in mano un libro di Hegel, e quando quello leggerà che l'essere è il nulla, il trascendente è l’immanente, l'infinito è il finito e che il generale è il particolare ( … e che 1 è 0, aggiungo io) finirà con l'andare all'ospedale dei pazzi.

    Ma torniamo al nostro Bento Spinoza. 

    Considerate le virulente reazioni al suo Trattato teologico – politico, Spinoza si guardò bene dal pubblicare la sua principale opera, il suo capolavoro, l’Etica. Una volta fece un timido tentativo di dare alle stampe il manoscritto. In una lettera a Henry Oldenburg, segretario della Royal Society di Londra, così Spinoza racconta il tentativo fallito: ‘ […] il 22 luglio (del 1975, due anni prima della morte) partivo per Amsterdam con l’intenzione di consegnare al tipografo il libro di cui vi avevo scritto (l’Etica). Quand’ecco spargersi ovunque la notizia che un mio libro su Dio era sotto torchio e che io mi sforzavo di dimostrare in esso che Dio non esiste. […] Informato di ciò da alcuni uomini degni di fede, i quali aggiungevano che i teologi mi tendevano insidie in ogni modo, ho deciso di sospendere l’edizione che stavo preparando, in attesa di vedere come si mettevano le cose.’ 

    Non gli restava molto tempo per ‘vedere come si mettevano le cose’. Già gravemente malato di tisi, forse a causa della polvere di vetro respirata per tanti anni molando lenti, Spinoza moriva, in quasi completa solitudine, all’Aia il 21 febbraio 1677.

    L’Etica restò manoscritta e Spinoza non conobbe il destino di una delle opere più controverse e feconde della storia della filosofia, vero e proprio flagello per le sorti della filosofia imperante e della religione consolidata.  L’opera fu pubblicata a cura di alcuni amici che, recuperato il contenuto della scrivania di Spinoza, si adoperarono, in gran segreto, per dare alle stampe i suoi scritti nel volume ‘Opera posthuma’. Si narra che agenti di Roma si aggirassero in quei giorni per Amsterdam nel tentativo di intercettare i manoscritti e, ovviamente, bruciare tutto. Si potrebbe romanzare la vicenda per farne un bel film nello stile del “Da Vinci Code”. 

    L’Etica fu subito sommersa da critiche o, piuttosto, da accuse virulente in nome della moralità, della pietà e della religione ma anche come reazione all’invito di Spinoza a condannare la fissità e la parzialità di ogni punto di vista unilaterale e dogmatico. Gli avversari più accaniti e intransigenti, tutti quelli che hanno esecrato Spinoza nei secoli, erano ben consapevoli del potenziale esplosivo del suo pensiero. Se, come scriveva lo scrittore e il filosofo tedesco G. Lessing, per tanto tempo Spinoza è stato trattato ‘wie ein toter Hund’, cioè come un cane morto, coloro che lo accusarono di ateismo e gli hanno mosso una guerra implacabile, sapevano bene che la filosofia spinoziana era inattaccabile dalle critiche della sola ragione. 

    Un anno dopo la morte di Spinoza, Leibniz, in una lettera a Tschirnhaus, definisce l’Etica un libro pericoloso per le persone in grado di capirlo: 

    […] Le opere postume dello scomparso Spinoza sono state infine pubblicate. La parte più importante è l’Etica, composta da cinque trattati. Vi ho trovato numerosi pensieri eccellenti con cui concordo, come sanno alcuni dei miei amici che hanno anche appreso da Spinoza. Ma ci sono anche paradossi che non trovo veri o plausibili […] che la nostra mente non percepisce nulla dopo questa vita; che tutto accade per una specie di necessità fatale; che Dio non agisce secondo fini ma solo per una certa necessità di natura. Ciò significa negare di fatto la provvidenza e l’immortalità. Io considero questo libro pericoloso per quelli che vorranno prendersi la cura di padroneggiarlo: poiché gli altri non faranno lo sforzo di capirlo” (Leibniz, lettera a Ehrenfried Walther Tschirnhaus, 1678

    Le accuse di Leibniz e di altri erano incentrate sulla ‘sua opposizione agli assiomi più evidenti e più universali che siano stati finora accettati’ cioè ai dogmi della religione cristiana.

    Gli argomenti di ordine logico nella critica a Spinoza sono sopraffatti e messi in ombra dagli argomenti di ordine morale, religioso ed estetico ispirati dalla necessità di garantire il primato del sentimento, del cuore e dell’immaginazione superstiziosa sulla ragione, oltre che di salvaguardare l’ordine morale e la religione imperante. 

    Nel capitolo su Spinoza del Dizionario storico critico, pubblicato venti anni dopo la sua morte, così il filosofo francese Pierre Bayle esprime la sua critica: “ Tra l’ipotesi spinoziana e quella cristiana […] bisogna optare per quest’ultima perché presenta il vantaggio di prometterci grandi beni per l’avvenire, lasciandoci grandi risorse consolanti nelle infelicità di questa vita. Nelle miserie, infatti, quale consolazione è più grande di quella di lusingarsi che le preghiere che indirizziamo a Dio saranno esaudite e che in ogni caso egli terrà conto della nostra pazienza per darcene poi una splendida ricompensa? E’ certamente una grande consolazione anche poter fare affidamento sul fatto che gli altri uomini conferiscono una certa importanza alla voce della loro coscienza e al timore di Dio: ciò significa che l’ipotesi comune (quella cristiana) è più vera e più comoda di quella dell’empietà

    Più comoda, senz’altro … ma perché sarebbe anche più vera? Bayle afferma che la religione cristiana è da preferire perché ci consola nelle avversità e ci fa sperare nella bontà e provvidenza divina. Ma da qui a dire che è più vera dell’ipotesi spinoziana ce ne passa. Non è il caso, tuttavia, di chiedere troppo rigore logico a un autore che, sensibile al bisogno di consolazione, subordina la regola filosofica a quella teologica e che da teologo è più preoccupato delle comodità e dell’utilità di una tesi che della sua verità. 

    Ma l’affermazione che lo spinozismo non offra alcuna consolazione è assolutamente falsa. Tutta l’Etica si dipana lungo un filo logico che si conclude con il conseguimento della consolazione suprema, l’amore intellettuale di Dio, unico sentimento in grado di sovrastare le passioni umane e, quindi, di garantire la serenità, se non la felicità, dell’animo.

    Occupiamoci prima però dell’accusa di ateismo, assolutamente infamante a quei tempi, rivolta a Spinoza. 

    Cos’è l’ateismo? 

    Dalla Treccani: “Ateismo: negazione esplicita e consapevole dell’esistenza di Dio (dal gr. ?ϑεος «senza Dio»). Ora la Parte Prima dell’Etica ha un titolo semplice e conciso: ‘De Deo’, cioè ‘Dio’. La prima cosa che fa Spinoza in questa prima parte è quella di dimostrare l’esistenza di Dio. Nella quinta e ultima parte dell’Etica è introdotto il concetto di amore intellettuale di Dio. Nell’ultima proposizione, Spinoza scrive: “La beatitudine consiste nell’Amore verso Dio […]” (E5XLII). In pratica tutto il pensiero di Spinoza parte da Dio e si chiude con Dio. Come scrive Leibniz: “Il libro di Spinoza è su Dio, l’uomo e la felicità … Spinoza comincia con Dio e finisce con Dio”. Da dove viene fuori allora l’accusa infamante, per quei tempi, di ateismo? 

    E’ evidente che per i critici di Spinoza la definizione di ateismo è diversa da quella della Treccani. Per costoro sono atei tutti quelli che dissentono dalla concezione religiosa dominante propriamente detta ‘teismo’. Il teismo descrive la concezione classica di Dio che si trova nel Cristianesimo, Ebraismo, Islam e afferma l’esistenza di un Dio trascendente, personale e provvidenziale. Il Dio del teismo è trascendente perché esiste oltre il Mondo, è personale perché dotato di sentimenti, come l’amore e la compassione, e di una volontà simile alla volontà umana. In quanto personale e dotato di volontà, Dio interviene nel Mondo con i miracoli e il dono della grazia per raggiungere un suo obiettivo finale: la salvezza dell’uomo. 

    In questo senso, non ci sono dubbi, Spinoza è ‘ateo’. Infatti, Spinoza non concepisce Dio come persona e come creatore. Per Spinoza Dio non è trascendente ma immanente perché essendo assolutamente infinito non può ammettere niente al di fuori di se; Dio non ha sentimenti umani come amore, rabbia, compassione ma è mosso solo dalla necessità della sua perfezione; non ha un obiettivo da perseguire, perché essendo già perfetto così com’è, non può tendere a un grado di perfezione superiore tramite il conseguimento dell’obiettivo prefissato.

    Dal mio punto di vista, il Dio umanizzato del cristianesimo non è un vero Dio ma una divinità di comodo inventata dall’uomo per soddisfare assurde e irragionevoli pretese come quella di essere immortali e di poter determinare, con preghiere e suppliche, l’infinita potenza e intelligenza di Dio. Da questa prospettiva potrei ritorcere l’accusa e dire che è il cristianesimo a essere la vera dottrina atea. Si tratterebbe della forma di ateismo più volgare e pericolosa: “… l’ateismo di coloro che credono nella trascendente divinità e che con invocazioni e offerte, osservandone i riti, credono di poter averla propizia e tutto permettersi.  Ed è una forma di ateismo molto diffusa nel mondo cristiano e nel nostro Paese diffusissima. E’ un rapporto di corruzione che si instaura con Dio, quasi che Dio fosse un’entità simile a un ministero” (Leonardo Sciascia rifacendosi a Platone, La Repubblica, 12 gennaio 2014). 

    Secondo me, invocare Dio con la preghiera per ottenere favori equivale a bestemmiare. In questo concordo con Voltaire: “ […] osare attribuire a Dio dei miracoli significa, in effetti, insultarlo (ammesso che degli uomini possano insultare Dio): è come dirgli "voi siete un essere debole e volubile". (Voltaire)

    Ma bando alle polemiche: procediamo con ordine andando a leggere direttamente la prima parte dell’Etica. Come sai, non ho studiato filosofia a scuola e, da profano, sono rimasto subito impressionato e intimidito dalla terminologia filosofica secentesca. Essenza, sostanza, esistenza, cosa in sé, concepita per sé, causa sui, ecc …  mi sono apparsi termini incomprensibili e sono stato, varie volte, tentato di lasciar perdere. Adesso, nel ripercorrere il pensiero spinoziano su Dio, mi propongo di usare un linguaggio semplice, comprensibile per chiunque abbia un minimo di curiosità e costanza. Vediamo se ci riesco.

    L’Etica comincia così: “Per causa di sé intendo [ … ] “ (E1DI) 

    Esiste qualcosa che può essere causa di sé? Gli esseri, sia animati sia inanimati, hanno bisogno di qualcos’altro per esistere. Ogni ente particolare ha bisogno, infatti, di una causa esterna che ne determini l’esistenza. Per esempio Luigi ha una causa prossima: i propri genitori; cause più lontane: i nonni, i trisnonni; cause remote: un certo ominide, un organismo unicellulare nel brodo primordiale, ecc. Dove si ferma la catena di causalità? In altre parole, quando finiscono i lavori di scavo? C’è una causa prima che determina l’esistenza di Luigi oppure la catena causa-effetto va indietro all’infinito? E se esiste una causa prima essa è causa di se stessa oppure non è causata da niente? La differenza fra le due formulazioni non è irrilevante: infatti, ciò che è causa di sé impone positivamente l’esistenza e, quindi deve esistere necessariamente. Questo è un punto fondamentale della filosofia spinoziana.  

    La Definizione I dell’Etica dice, infatti: “Per causa di sé intendo ciò la cui essenza implica l’esistenza, ossia ciò la cui natura non può essere concepita se non come esistente“ (E1DI). 

    Si dice che per il novanta per cento dei lettori il rapporto con l’Etica di Spinoza termini proprio qui, alla lettura della prima definizione. Anche Luna, la mia amata gattina, che fino ad ora era stesa di fianco al monitor si è alzata, si è stiracchiata, mi ha guardato con un’espressione di commiserazione come per dire “Poveraccio … è fuori di testa” ed è andata via sdegnata. E’ la parola “essenza” che scoraggia i potenziali lettori?  Anch’io la prima volta che ho incontrato la parola essenza mi sono chiesto quale fosse il suo significato. 

    Dalla Treccani: “Essenza: la natura propria e immutabile delle cose”. Per esempio, la natura propria e immutabile del triangolo consiste nel fatto che è formato da tre angoli e tre lati e che la somma degli angoli interni è uguale a 180 gradi. Possiamo disegnare un’infinità di triangoli tutti diversi tra di loro eppure ciascun triangolo avrà la natura propria e immutabile appena descritta.

    Ora se Spinoza dice che l’essenza di una cosa è l’esistenza vuol dire semplicemente che quella cosa deve esistere per forza e per sempre, cioè eternamente. Questo avviene perché l’essenza così precisata esclude che la cosa in questione debba costituirsi discorsivamente in un tempo sia pure concepito senza principio e senza fine. Insomma nella cosa la cui l’essenza implica l’esistenza sono esclusi il tempo e la durata. Essa è fuori del tempo, o per dirlo con altre parole, è nell’eterno presente. Anche se non è detto esplicitamente, possiamo già intuire che la cosa causa di sé non è altro che Dio. Ma andiamo avanti con la Definizione III.

    Per sostanza intendo ciò che è in sé ed è concepito per sé: ossia ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa dal quale debba essere formato” (E1DIII) 

    Per il momento lasciamo stare il significato di “sostanza” e cerchiamo di capire cos’è una cosa che “è in sé” e che “è concepita per sé”. 

    Se dico che una cosa “è in sé “, voglio dire che è tutta in se stessa, ossia non dipende da altro che sia esterno a essa. Per esistere ed essere, la cosa in sé non alcun bisogno di appoggiarsi e riferirsi a un’altra cosa.  Abbiamo noi esperienza di cose in sé? Proviamo a pensare: la tastiera che sto usando è cosa in sé? Ovviamente no, la tastiera è stata fatta dalla Logitech e per funzionare ha bisogno delle batterie; il pino che vedo al limitar del bosco è cosa in sé? No, perché dipende inizialmente dal seme da cui è germogliato e in seguito dagli infiniti fattori ambientali che lo determinano. Luigi è una cosa in sé? No, perché è stato generato dall’incontro di uno spermatozoo e un ovulo e dipende da fattori esterni e interni che lo modificano in continuazione. La luna, il sole, le stelle sono cose in sé? No, perché tutti corpi celesti sono stati causati dall’evoluzione cosmica e sono dipendenti da relazioni reciproche. Che cosa è allora LA cosa in sé? Lascio la domanda in sospeso e passo al concetto di “cosa concepita per sé”. 

    Se dico che una cosa è “concepita per sé”, voglio dire che quando penso a questa cosa non devo rifarmi ad altre cose per comprenderla. Qui abbiamo a che fare con la necessità di conoscere le cause di una cosa per poter dire che veramente la conosciamo (scire est scire per causas, conoscere significa conoscere attraverso le cause). La luce prodotta dalla lampadina che illumina la mia stanza può essere concepita per sé? In altre parole, la natura della luce elettrica può essere compresa senza aver un’idea di come e perché si riscalda il filamento della lampadina che produce la luce?  Ovviamente no, quindi la luce della lampadina non è una cosa concepita per sé. Luigi può essere concepito per sé? Assolutamente no, perché il mio corpo e la mia mente non trovano spiegazione all’interno di me, in me stesso. Il mio corpo e la mia mente sono così come sono per tutta serie di eventi, incontri, scontri, rapporti, influenze, ecc …  che costituiscono la mia storia. Esiste UNA cosa che può essere concepita per sé? 

    Non giriamoci intorno, è ora di tirare le somme e dire che LA cosa che è “in sé”, che è “concepita per sé” e che è “causa di se stessa” è la “sostanza”, cioè Dio. La definizione VI chiarisce infatti che la sostanza è Dio:

    Per Dio intendo l’ente assolutamente infinito, cioè la sostanza che consta di infiniti attributi, ognuno dei quali esprime un’essenza eterna e infinita” (E1DVI) 

    Analizziamo la definizione. C’è un Dio, o sostanza, assolutamente infinito che è formato da un numero infinito di attributi ciascuno dei quali è a sua volta infinito.  Questi infiniti all’interno di altri infiniti fanno girare un po’ la testa. Cerchiamo di capirci qualcosa con qualche esempio. Una retta, essendo illimitata in entrambe le direzioni, contiene infiniti punti, ed è infinita. Anche il piano, illimitato in tutte le direzioni, è infinito e, al tempo stesso, contiene un numero infinito di rette infinite. Ora, se io dico che il piano è “assolutamente infinito” voglio dire che deve esisterne solo uno e che, quindi, l’infinito numero di rette sono riferibili e contenute nell’unico piano in questione. Esiste un solo piano, non c’è nessuna retta fuori del piano, anzi il piano è tutto quello che c’è. 

    Torniamo alla definizione di Dio e sostituiamo “piano” con “sostanza”: se la sostanza è assolutamente infinita, allora essa è tutto quello che c’è perché, non esistendo alcun “fuori” rispetto a essa, non può esserci alcuna realtà all’esterno di essa. Per esempio, se Dio è assolutamente infinito, il concetto, proprio del teismo, di creazione e di creato esterno a Dio non è ammissibile. “Tutto ciò che è, è in Dio”. 

    Qual è allora la realtà del Mondo? Il Mondo, o “estensione” in termini filosofici, è uno degli infiniti “attributi” di cui consta la sostanza. Tornando all’esempio delle rette e del piano, l’estensione può essere assimilata a una delle infinite rette contenute nel piano. A questo punto occorre chiarire cos’è un attributo. Abituati dall’analisi grammaticale insegnata alle scuole elementari, verrebbe subito da identificare attributo con aggettivo. Un attributo, in grammatica, è infatti un aggettivo che specifica una qualità o una caratteristica di qualcosa. Diciamo, per esempio, che il cielo è azzurro e il mare tempestoso. Cambiando l’aggettivo non si modifica la natura della cosa descritta: sia che sia calmo, sia che sia tempestoso, il mare non cessa di essere mare. Gli attributi di Dio, a differenza degli aggettivi, sono immutabili: devono essere sempre gli stessi perché caratterizzano l’essenza della sostanza e ne definiscono la natura.

    Per attributo intendo ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua stessa essenza” (E1DIV). 

    L’intelletto percepisce l’attributo come costituente la natura (o essenza) della sostanza. L’attributo allora è una costruzione operata della mente umana? Assolutamente no: la mente “percepisce” e riconosce qualcosa che s’impone nella sua evidenza, per esempio, il Mondo, l’Universo o l’estensione. Ma degli infiniti attributi della sostanza quanti ne riesce a percepire la mente umana? Solo due. Uno è l’estensione, l’altro è il pensiero. Delle infinite rette che giacciono nel piano assolutamente infinito ne sono riconoscibili solo due. E le altre rette? Ci sono, in numero infinito, ma non sono percepibili per le nostre povere capacità sensoriali e intellettive.

    L’estensione e il pensiero, come tutti gli attributi di Dio, sono da considerare come indivisibili ed eterni (non si costituiscono nel tempo). Come la mettiamo allora con i corpi finiti (il corpo di Giacomo, di Ciro, il sole, una mosca, un sasso, …) e i pensieri finiti (quelli che Giacomo e Ciro hanno pensato nell’ultima ora) che sperimentiamo nella vita di ogni giorno? Limitandoci all’estensione, è evidente che l’universo è pieno di corpi corruttibili e finiti che si limitano a vicenda nello spazio tempo. Se “tutto ciò che è, è in Dio” come s’integrano i corpi finiti e mortali nell’infinito ed eterno della sostanza e dei suoi attributi? O anche, come si introduce nell’eterno e nell’immutabile di Dio la trama del tempo e della finitezza? 

    Queste questioni costituiscono, secondo me, lo snodo cruciale della filosofia spinoziana. 

    Nella terminologia dell’Etica, la realtà finita e peritura, i corpi concreti, le cose materiali che, tramite la percezione, cadono sotto la nostra esperienza sono chiamati “modi”.

    Per modo intendo le affezioni della sostanza, ossia quello che è in altro per mezzo del quale è anche concepito” (E1DV). 

    Nel linguaggio comune “affezione” equivale a sentimento di affetto, in questo caso però non è così: un’affezione deve intendersi coma una modificazione. I modi sono i singoli corpi (modificazioni dell'estensione: il corpo di Giacomo, di Ciro, il sole, una mosca, un sasso, …) e le singole idee (modificazioni del pensiero: quelli che Giacomo e Ciro hanno pensato nell’ultima ora). La definizione dice anche che il modo è “ciò che è in altro”. In questo senso i modi (i singoli corpi e le singole idee) non sono in sé, né possono essere concepiti per sé. Possono essere concepiti soltanto in virtù di Dio che è sostegno e causa di ogni realtà. Se ogni modo finito è prodotto da un altro modo finito, allora possiamo immaginare l'universo come un’infinita catena di anelli di causa-effetto. Sappiamo che la causa efficiente o prossima di Ciro non è Dio ma i suoi genitori e potremmo pensare, erroneamente, che Dio sia invece la causa prima di Ciro. Questa idea è sbagliata perché non tiene conto dell’a-temporalità di Dio. Dobbiamo immaginare che nell’infinita catena di anelli di causa-effetto, Dio non è il primo o l’ultimo anello della catena … ma … è la catena stessa!!! 

    Ecco dunque delineate le tre figure fondamentali dell’ontologia spinoziana come sono presentate dai testi divulgativi dello spinozismo: (1) la sostanza, cosa in sé e concepita per sé, intesa come la totalità degli attributi; (2) gli attributi stessi che non hanno un’esistenza autonoma e separata da quella della sostanza, ma ne esprimono l’essenza; (3) i modi che non esistono da sé e in se stessi, ma sono finiti, contingenti e precari. 

             

     

    Questo modo di presentare e descrivere l’ontologia spinoziana è totalmente sbagliato e fuorviante. Non c’è alcuna separazione fra sostanza, attributi e modi: tutto è Dio, cioè una Totalità indivisibile ed eterna. 

     

                                             

     

    Ma come, dirai, i modi esistono e si modificano (divengono) nel tempo, la loro stessa esistenza si dipana discorsivamente nella durata, com’è possibile introdurli nell’immutabile e nell’eternità che non prevede né il tempo, né la durata? 

    La mia risposta è che ogni istante dell’esistenza di un corpo (come quello di Giacomo e di Ciro, del sole, della mosca e del sasso) è esistente, immobile, nell’eterno presente di Dio. Il mio nascere e il mio morire non modificano niente nella perfezione del Tutto, semplicemente perché il mio nascere, il mio morire sono da sempre e per sempre nel Tutto indivisibile ed eterno.

    E’ solo la struttura della nostra limitata sensibilità a farci veder la separazione e lo scorrere del tempo. Se io potessi contemplare il mondo materiale e non materiale nella sua totalità ed eternità, se potessi indossare gli occhiali di Dio, allora coglierei la mirabile perfezione del tutto. Intuirei anche la mia esistenza come elemento particolare, forse poco rilevante ma essenziale della struttura del Tutto indivisibile. Basta pensare che senza il mio essere il Tutto o Dio sarebbe diverso da quello che è, cosa questa assolutamente assurda. 

    Tutto ciò che appare come bene o male o imperfezione, dipende dalla nostra immaginazione che dà un'interpretazione soggettiva e non coglie il mirabile ordinamento del tutto che, essendo perfetto ed eterno, esclude sia il tempo sia la durata. Il movimento che noi cogliamo nello scorrere del tempo è solo dovuto all’interpretazione che i nostri sensi e la nostra coscienza danno della Realtà. 

    Noi percepiamo le singole cose del pensiero e dell’estensione, cioè i modi, come contingenti, imperfetti e perituri ma l'insieme, la totalità dei modi nell’eterno presente è perfetta e immobile come perfetto e immobile è Dio. Detto in altro modo: tutto quello che c’è è un unico Individuo indivisibile, le cui parti, cioè tutti i corpi, appaiono, o sono da noi percepiti, in continuo mutamento senza che vi sia alcun effettivo mutamento e movimento dell’Individuo nella sua totalità.

    Viene spontaneo a questo punto dire: Ok, d’accordo, l’eternità di tutti gli istanti e la totalità indivisa possono essere idee suggestive e affascinanti ma sono solo astrazioni che non tengono conto della realtà fatta di tempo che scorre e corpi separati. Io stesso la pensavo così fino a quanto non ho approfondito la teoria della relatività e la meccanica quantistica (clicca qui per vedere la mia serie sulla TR e MQ). Queste due teorie ci offrono una visione scientifica di com’è fatto il mondo che giustifica pienamente l’ontologia spinoziana. Le vere astrazioni sarebbero allora il nostro concetto di presente=realtà e l’operazione con cui noi separiamo dal Tutto le realtà finite, noi stessi, i corpi concreti, le cose materiali che cadono sotto la nostra esperienza. "E’ proprio il senso comune ad essere la forma estrema, ed al tempo stesso estremamente inconsapevole, di astrazione. E’ la nostra percezione del mondo come diveniente molteplicità frantumata ad essere il vero imbroglio perpetrato dalla nostra povera umana sensibilità" (LdB)

    Per cercare di spiegare questo concetto poco intuitivo ho spesso citato, nei miei scritti sullo scorrere del tempo, il continuum spaziotemporale della Teoria della Relatività. In effetti, la teoria di Einstein è in grado di farci intuire cosa c’è presumibilmente oltre ciò che le nostre capacità sensoriali riescono a cogliere. A costo di ripetermi, ripropongo alcune citazioni sull’eternità di ogni istante. 

    Albert Einstein ha scritto: “Per noi fisici, la distinzione fra passato, presente e futuro è solo un’illusione”. 

    In un’altra occasione: “Siccome nella struttura a quattro dimensioni dello spazio-tempo non è più possibile rappresentare obiettivamente il ”NOW”, l’adesso, i concetti di accadimento e mutamento (divenire) sono, se non proprio completamente sospesi, certamente resi più complicati. Sembra quindi più naturale pensare alla realtà come a un’esistenza quadridimensionale, piuttosto che all’evoluzione (nel tempo) di un’esistenza tridimensionale”. 

    Kurt Goedel, uno dei più grandi matematici del XX secolo e collaboratore per un certo periodo di Einstein, nel  saggio dal titolo "A Remark about the relationship between Relativity Theory and Idealistic Philosophy"scrive: 

    "Non è realistico pensare che il mondo consista di una serie di attimi indefinibili che, in rapida successione, appaiono e svaniscono dall'esistenza. E' più realistico pensare che il passato e il futuro esistono permanentemente".

     Un’ultima citazione a proposito dell’unitarietà del tutto: 

    C’è una sola sostanza nell’universo, nell’uomo e negli animali. L’uomo è fatto di carne, l’uccello è fatto di carne, anche se la musica della carne è organizzata differentemente. Ma uomo e uccello hanno la stessa origine, la stessa formazione, la stessa funzione e la stessa fine” (Denis Diderot)  

    Con tanti saluti alla supremazia dell’uomo sulla natura.

     

     Luigi Di Bianco

    PS: Per la serie completa dei miei scritti visita il mio sito web SUM ERGO COGITO

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