Nabucco: il racconto di Daniel Oren

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Intensa l’idea interpretativa del direttore espressa da un’orchestra non alla sua altezza. Trionfa Ionut Pascu nel ruolo del protagonista, insieme a Carlo Colombara che ha dato voce a Zaccaria. Deludente l’Abigaille di Maria Guleghina. Convincente l’allestimento di Giacchieri e Arbetti

 

 

 

 

 

Di OLGA CHIEFFI

 

Con il Nabucco, e il suo immortale “Va’ pensiero”, si è vissuto giovedì sera l’evento clou dei festeggiamenti salernitani per il bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi, dedicatario del massimo cittadino. Intensa la lettura di un Daniel Oren che “sente” con tutto se stesso quest’opera e cerca di offrirne sempre una linea di lettura fortemente ritmata, fortemente contrastata, in cui invita l’orchestra a seguire la parola, il crescendo della tensione drammatica, il legato degli archi, la qualità dei “fortissimi” ( “Si può suonare forte ma con classe!”), la compattezza negli assieme del coro, con polso duttile, mano sinistra eloquente nei segni d’espressione, associato a qualche grugnito primordiale e qualche salto. Oren tende ad una direzione non soltanto dominatrice sotto il profilo della coerenza e della precisione, ma ricca di contrasti, colori, sfumature e slanci. Stavolta, però si è ritrovato dinanzi una formazione alquanto rimestata, in particolare negli ottoni e sia in buca che dietro il palcoscenico è andato in scena non Nabucco ma “Er Nabucco” , poco maschio, per scelta di suono, in particolare delle trombe e la parvità e la timidezza dei tromboni, (si è percepito distintamente solo il primo) e della tuba, preferita al cimbasso, che non è riuscita a ricreare quell’ “agonia della burrasca”, caratteristica dell’ orchestra verdiana, tanto amata da Enzo Siciliano, compito a lei affidato. Discromie e discronie con la chiave di lettura del direttore non si sono contate, in particolare da parte di violini e celli, giustificate dall’esiguità di prove con il Maestro che ha pur illustrato con grande impegno e partecipazione, nella generale, agli orchestrali le sue linee estetiche che, purtroppo sono state realizzate solo in parte. La firma di quest’ opera spetta di diritto ad un Ionut Pascu in gran forma, con il suo canto splendidamente ritmico e disteso che si è imposto sul concertato, realizzando ogni contrasto di intensità e colori che danno luogo al vero linguaggio melodrammatico. Applausi a scena aperta per Pascu interprete di “Oh, di qual onta aggravasi”, intensa melodia collocata in uno di quei momenti cari a Verdi, quando si accosta a vecchi, vinti e delusi. Nobiltà cupa e tormentata per lo Zaccaria di Carlo Colombara che dal secondo quadro giunge in crescendo sino al finale. Deludente l’Abigaille di Maria Guleghina, parte impervia, spaziante in un vasto ambito, con il suo attacco su di un si basso “Prode guerrier”, la violenza, l’irrisione, un notevole temperamento drammatico che dobbiamo riconoscere al soprano, passa per la cavatina simpaticamente belliniana “Anch’io dischiuso un giorno” sapientemente interpretata, sino ai salti di registro in cui è inciampata diverse volte della cabaletta “Salgo già del trono aurato”, portata a termine con enorme sforzo. Sulle sponde dell’Eufrate gli ebrei prigionieri cantano il loro suggestivo lamento, una pagina musicale difficile da descrivere perché perfetta, una melodia che non permette aggettivi. Indovina Renzo Giacchieri, dopo aver schizzato un Nabucco classico con scene fisse (schieramento del coro ai due lati del palcoscenico e protagonista al centro), ammantate da simboli quali la Menorah per i Leviti o il dio Marduk, lo zodiaco e il leone alato per gli Assiri,  l’entrata del coro in platea, il coro siamo noi tutti e siamo chiamati da questa melodia, a porci all’ascolto della sofferenza di tutti i popoli, dell’altro mondo, del mondo altro. La scena, purtroppo, è stata appesantita, quasi a farne un fumetto, dalla retorica dei simboli risorgimentali, soldati piemontesi feriti con l’Italia divisa ed esanime tra le braccia, rappresentata da tre figuranti andante a formare il tricolore, lo stesso Giuseppe Verdi in sala con la moglie Giuseppina Strepponi, intrecciati con il lungo grido di dolore degli Ebrei che parte da quel lontanissimo 586 a.c per giungere sino ad oggi, passando per l’Olocausto, e la questione mediorientale di Israele e Palestina, per chiudere con i volantini “Viva Verdi” lanciati dal loggione. Bis di prammatica e invito di Oren a porsi in ascolto del “racconto” racchiuso per intero nell’ ultima nota coronata, senza fine, del Va’ pensiero. Dignitosa la prova del coro, nonostante l’esiguità delle voci maschili, che ha ora un nuovo maestro Marco Faelli, dopo il forfait di Luigi Petrozziello, così come è stato portato a termine il compito da Eufemia Tufano nel ruolo di Fenena, Domenico Menini, Ismaele, un onnipresente Carlo Striuli nei panni del gran sacerdote di Belo, Francesco Pittari in quello di Abdallo e Paola Francesca Natale in quello di Anna. Applausi per tutti e si replica sino al 7 ottobre con cambio di bacchetta, che passerà tra le mani di Francesco Rosa.

 


 

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