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NA 27/9/13 L’uomo che sorveglia i nostri cibi: «La diossina va sul mais ed entra nella catena alimentare»

 L’INTERVISTA

Limone, direttore dell’Istituto Zooprofilattico del Mezzogiorno
“Ci vuole un marchio di qualità per i nostri campi”

NAPOLI — Direttore Limone, ci aiuti a capire: il ritrovamento ora di fusti tossici in molte aree a nord di Napoli e nel Casertano dimostra che in Campania viviamo tutti su una bomba inquinante e che tra poco qui niente più sarà commestibile? 
«Non mi iscrivo al partito dei rabbonitori né a quello degli urlatori. Io ho responsabilità a carattere scientifico. Parlo solo citando dati che ho e cose che so». 

E che sa? 
«Che abbiamo fatto prelievi di diossina in tutte e cinque le province della Campania». 

(Antonio Limone, veterinario, è il direttore dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Mezzogiorno che ha la sede centrale a Portici. L’istituto è uno dei 10 presenti in Italia. È un ente sanitario di diritto pubblico dotato di autonomia gestionale, tecnica ed amministrativa, che opera nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale, in materia di Igiene e sanità Pubblica Veterinaria, quale strumento tecnico-scientifico dello Stato e delle Regioni Campania e Calabria, con sezioni periferiche in quasi tutte le province delle due regioni)

Avete dunque un perimetro delle aree a rischio? 

«L’area va dalla sponda meridionale del Volturno fino ai Regi Lagni, dall’Agro Aversano al Basso Casertano. Lì c’è una concentrazione di fattori che cogenerano la diossina».

Come l’avete scoperta? 
«Attraverso le analisi effettuate in collaborazione con un laboratorio di Amburgo». 

Che c’entrano i tedeschi? Chi li ha ingaggiati? 
«Il laboratorio di Amburgo ci garantì risultati in tempi brevi e a costi ragionevoli quando l’Unione europea ci comunicò che senza analisi certificate, in quindici giorni avrebbe ordinato la chiusura di tutti i caseifici che producevano mozzarella di bufala. Ecco spiegati i tedeschi». 

E i risultati di quel primo allarme legato alla “mozzarella alla diossina” che dimostrarono?
«Che la concentrazione di diossina è puntiforme, legata a fenomeni puntuali». 

 

Quali?
«Roghi e incendi, per esempio. Dai fuochi la diossina si è depositata sul mais ed è entrata così nella catena alimentare. Ma piccole concentrazioni di diossina sul mais possono essere collegate anche ad un uso non corretto degli anticrittogamici». 

Sta dicendo che è difficile avere una mappa reale del rischio in Campania?
«Sto dicendo che le nostre colture non sono impiantate quasi mai a ridosso di grandi fabbriche. E che la diffusione della diossina è puntiforme. Per scoprirla è necessaria una rigorosa mappatura di ogni singola particella di terreno. Solo questo studio può dire quali campi sono inquinati e quali no». 

È possibile che due campi confinanti siano uno altamente tossico e uno coltivabile in sicurezza? 
«Certo. A distanza di soli cinquanta metri si possono avere terreni con caratteristiche completamente diverse. Lo stesso discorso vale per le falde acquifere: bisogna fare la differenza tra quelle superficiali e quelle profonde. E studiandone il percorso si possono avere terreni confinanti con quello inquinato che sono puri, ma scoprire poi, seguendo la falda, che a diverse decine se non centinaia di chilometri ci sono altri appezzamenti inquinati proprio da quella falda».

Come avere qualche certezza, allora?
«Studiando ogni porzione di territorio. E preparando un protocollo di qualità».

Quale protocollo? Ci state lavorando?
«La sigla è DOAG che significa Di Origine Ambientale Garantita. È un marchio che mi sento di suggerire alla Regione e al presidente Caldoro. Servirà a collegare un prodotto al suo terreno». 

Un aiuto per il consumatore?
«Gli toglie i dubbi, così il consumatore sa cosa cercare e cosa portare in tavola. Oggi affermare il binomio ambiente-salute è quanto di più difficile esista». 

Facciamo un esempio concreto di prodotto tracciato che può avere il marchio Doag
«Fai analisi sul terreno, l’aria, l’acqua. Poi valuti i valori e puoi distinguere se quel terreno può essere destinato a colture o deve essere no food, spesso invece la valutazione si fa a valle». 

Che significa a valle?
«Sentiamo dire che c’è un aumento delle leucemie, dei tumori. Sarà pure vero, ma senza un registro dei tumori, senza una classificazione epidemiologica scientifica non hai dati scientifici certi disponibili. Puoi battere la grancassa, ma la soluzione è un’altra: studiare ogni particella di terreno e trovare la soluzione per ognuna di esse».

E in Campania che si fa? 
«La Campania è tra le regioni italiane quella che fa più controlli sulla diossina. Per la mozzarella, ad esempio, posso dire che non è assolutamente pericolosa. È l’alimento seguito di più. Io stesso ne sono un buon consumatore. Quando Michele Santoro fece una trasmissione televisiva sulla mozzarella io gli inviai dati dai quali la mozzarella risultava un prodotto illibato. Non so perché Santoro non abbia citato quei dati in tv». 

 

E per i vegetali? 
«Forse non si sa che i contadini della Piana del Sele hanno fatto venire la diarrea a tutto il nord Europa, perché mandavano lì la rucola innaffiata con acqua alla salmonella. Siamo intervenuti correggendo il tiro. Così come abbiamo fermato la diossina in campi del Salernitano dove c’era la pessima abitudine di bruciare le buste di plastica dei prodotti usati per la coltivazione dopo averle svuotate del contenuto. Quando troviamo la causa, si può intervenire». 

È una ricerca difficile?
«Il problema vero è il nesso tra più competenze. Noi, le Asl, altri laboratori… Credo che una tra le soluzioni possibili sia un provvedimento straordinario della Regione Campania». 

Una legge speciale o qualcosa di simile?
«Un provvedimento straordinario per la messa in sicurezza dei terreni: una relazione certa tra il terreno, il veleno e la malattia. Un monitoraggio minuzioso perché è il singolo terreno che conta». 

Sta dicendo che non si deve parlare genericamente di “terra dei fuochi”?
«Sto dicendo che conta il singolo terreno. E anche le acque. Sotto Pozzuoli scorre un fiume che probabilmente sta raccogliendo il percolato di Pianura. E sto dicendo che conta il singolo studio sul campione analizzato. Faccio un altro esempio: mesi fa venne da me l’inviato di un mensile che voleva realizzare un reportage sulle acque del Golfo di Napoli. Un giorno se ne andò a pesca. Vide in acqua i bicchierini di carta gettati dai marinai che prendono il caffè al largo. Tornò con due pesci e mi chiese di analizzarli: quei pesci erano perfettamente edibili, nonostante rifiuti e percolato in acqua. Magari uno si fida dei gamberi rossi che arrivano dal sud-est del mondo e poi scopre che sono allevati in vasche con antibiotico. O che il polpo pescato nelle nostre acque pure inquinate è sano mentre quello argentino è pieno di antibiotici pure lui come i gamberi».

La Campania Felix non è finita?
«Non so se sia ancora felix o no. So che qui come altrove ci siamo comportati come se avessimo cinque pianeti Terra a disposizione». 

I terreni sono stati maltrattati. Ma potranno essere bonificati?
C’è chi parla di aree imbonificabili ormai. «Ci sono esempi di terreni no food che dopo 4/5 anni sono tornati food grazie a batteri che hanno metabolizzato i contaminanti. Le bonifiche si possono fare, ma bisogna sapere che sono lunghe e costose. Alcune cose si possono fare da subito invece». 

Quali? 

«Insieme allo smaltimento degli errori già commessi, dobbiamo assolutamente evitare l’aumento delle aree da bonificare. Abbiamo bisogno anche di controlli sui territori per evitare nuovi roghi. E convincerci che la raccolta differenziata è una esigenza insopprimibile. Anche quella riduce i roghi».

 

Carmine Festa

Corriere del Mezzogiorno –Napoli /Cronaca

27 settembre 2013

 

Inserito da Alberto Del Grosso

 

Nota: Il video e le foto nelle correlate sono tratti da internet e dal TG2 e non è parte dell’intervista al direttore Antonio Limone.  Sono collegati alla terra dei fuochi

 

 

 

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