LA GIORNATA DEI CAMMINI PER ASCOLTARE LA VOCE DELLA NATURA. A TRENTINARA LUNGO IL CORSO DEL SOLOFRONE

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    Il Primo Maggio mi sono aggregato all’esercito in fuga dai veleni della città alla conquista di aria profumata da respirare a pieni polmoni sulle ali della brezza in aperta campagna. Mezz’ora e la macchina era già sistemata nel parcheggio erboso di un agriturismo nell’agro romano con paesaggio accidentato tra colline con chiese e castelli, a richiamo d’amore a distanza, e campi coltivati a scivolo verso la vallata del Tevere, nastro liquido di storia e storie raccolte dalle terre di Toscana ed Alto Lazio e in corsa verso la foce che conobbe Enea a costruire la caput mundi con la protezione della madre Venere e consenziente il Fato.

     

    Luminose di sorriso le acacie in fiore che nevicavano petali bianchi su strade umidicce di brina con i fossati a scialo di prataiole multicolori con, qua e là, il rosso dei papaveri a gara con il viola dei cardi a fuoriuscita dalle spine raspose del carcere del cilicio.

     

    Nello spiazzale accogliente del ristorante carnosa ed invitante come le labbra di una donna in amore la rosa. Da incanto la siepe di salvia ad accenni di gemme e quella di rosmarino con spruzzi di rugiada.

     

    Un trasfert d’amore e mi si è parata dinanzi un’altra campagna con il rosso della sulla a scialo di puledri ebbri di luce e di profumi vergini e con le colline ingioiellate dall’oro effimero delle ginestre: quella del mio Cilento parato a festa in onore della dea Flora.

     

    Si chiamava così’ la dea della rinascita della vita e dell’amore a maggio, come appresi con rigore di studi che indagavano sulla storia della mia terra, dove c’è stata la civiltà dei Greci e dei Romani, e vi ha lasciato tracce di culti religiosi, che sono poi trasmigrati e santificati nella ritualità cristiana. Fu allora che mi diedi risposte di cultura ai tanti perchè che facevano ressa alle porte di cuore, anima e, soprattutto, mente, curiosa ed inquieta nei pellegrinaggi a chiese e santuari di campagna e montagne in compagnia della mamma nelle giornate di profumi e luce della bella stagione.

     

    Mi piacerebbe che analoga inquieta curiositas fecondasse i giovani che si aprono alla vita ed al futuro con il demone, daimon, alla latina, della conoscenza. La natura ha un suo linguaggio in tutte le stagioni, ma soprattutto in questa di trionfo della primavera. Ha voce la natura ed è fatta di silenzi e suoni, di fremiti e fruscii di erbe che s’incurvano luminescenti come risposta al bacio della brezza che ne assorbe i profumi. Ha un vocabolario ricco la natura e lo declina con alberi e fiori, ortaggi e frutti, cinguettii di uccelli e voli di farfalle colorate, ronzio di calabroni, di vespe ed api a caccia di polline per secernere miele e cera al chiuso delle arnie.

     

    Ed hanno vita le piante, la quercia, che, sacra a Giove resiste alle intemperie sulle cime dei monti, l’abete, che  recita la nenia di amore e morte di Attis e Venere, i faggi e i castani che ombreggiano le grotte/covi dei briganti, buoni, generosi e protettivi con i deboli e forti e vendicativi con gli arroganti e i prepotenti. Ha voce la natura e, a prestarle orecchi, narra storie di lavoro e di antichi mestieri sui monti boscosi, dove visse un esercito di carbonai vigili alla spia del “catuozzo” che trasformasse, a lenta e controllata combustione, nel rispetto di una ritualità di sapienza ed esperienza antica, legna di lecci, cerri, roverelle, ontani e frassini, in carbone e  carbonella. Evoca stagioni di sudori la fornace, “carcara” in disuso nella lenta cottura di pietra che conobbe le calure di agosto e le nevi di gennaio.

     

    Ha voce il vento che carezza i giovani virgulti delle viti, sbriglia a nenia lieve l’argento degli ulivi e canta, così, litanie di devozione a Dioniso/Bacco e Atena/Minerva, pettina i campi di sulla pronta per la fienagione odorosa e agita sensualità di odori/afrori nel giallo delle ginestre che ingioiellano di ciondoli d’oro le colline, dove fringuelli e passeri si rincorrono ebbri di voli, di luce e d’amore.

     

    Ha voce la natura se la si sa ascoltare in ore di trekking, che non sia solo salutare esercizio fisico, ma anche e soprattutto anamnesi di storia e di tradizioni vive nei segni, nei sentieri di campagna antropizzata, nella toponomastica che recupera ed esalta pagine della povera epopea contadina. Ma c’è anche, spesso, l’eco della Storia, che ha cambiato la geopolitica del territorio. E penso a quello mio, dove sono nato, con i segni delle “nevere” sui monti, delle “passolare” nei campi coltivati, degli “stazzi” sui pianori, delle “edicole” e/o “croci” su monoliti a sosta di preghiera, di qualche “grava” che rimbomba vita nel ventre della terra, del fiume che sgorga per miracolo da un’arida arenaria e ferisce di luce con corso zigzagante i coltivi, che feconda di orti irrigui. E a dare ascolto alle acque che levigano ciottoli traslucidi narra di un marchese/poeta, Bernardino Rota, che governò la contrada con la bella moglie Porzia, che Venere rapì giovanissima per il cielo della bellezza, della grazia e dell’amore. Io quelle storie le ascoltai bambino con il cuore in subbuglio di emozione, sulle rive del torrente/fiumiciattolo Solofrone a catturare girini e ad infilzare ranocchi, vittime innocenti dei miei giochi perfidi. E la voce del fiume la seguii fino a quella cascata dirupante dagli altari di pietra nella gloria della luce a sfavillii d’argento e ne ascotai l’eco dell’ultima battaglia di Spartaco nella gola, che ancora rimbomba di canti di libertà, al cui mito mi formai e che con impegno civile, con la passione del cuore, la partecipazione dell’anima e la motivata convinzione del pensiero, ho esaltato e difeso nel corso di una intera esistenza. E carico di anni ma non domo di cuore e d’intelletto continuo a cantare nella mia scrittura creativa e a difendere nella lucidità delle riflessioni.

     

    Vorrei tanto che nella “GIORNATA DEI CAMMINI”, domenica prossima, 5 maggio, i giovani della mia terra in una passeggiata a passi lenti cogliessero il cuore più profondo del territorio e ne ascoltassero le ragioni e gli echi di tradizioni e di lavoro, di culti e devozioni, di storia e di poesia. Io lo farò, di sicuro, ma con l’immaginazione e da lontano recuperando, così, anche parte delle memorie di stagioni lontane.

     

    Lo farò per la terra dove sono nato, ma anche per la mia terra di adozione, Amalfi, dove un altro fiume, il Canneto, miscela alla foce, nel mare dei miti e nella luce della bellezza, altra storia prestigiosa raccolta lassù alle radici dei Lattari, dove precipita con frastuono d’argento un’altra cascata, quella della Ferriera, che fu vita di attività di protoindustria in quel contenitore/museo all’aperto di storia, arte, cultura e bellezze naturali, che è la Valle dei Mulini.

     

    Ma questa è un’altra storia, di cui mi sono occupato e più riprese e di cui, di sicuro, mi occuperò ancora per nostalgia d’amore.

     

    Giuseppe Liuccio

     

    g.liuccio@alice.it

     

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