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    Buoni samaritani

    Lezione 11

    La vita dei cristiani è fatta anche di cose materiali: la loro mente è protesa verso finalità e pratiche molto spesso diverse da quelle generalmente accettate ( Cfr. Giovanni 17:14-15, Romani 12:1-2, Colossesi 3:2, I Pietro 4:2), ma in  una esistenza che prevede pur sempre lavoro, famiglia, preoccupazioni quotidiane, malattie, calamità (oltre che cose belle, si intende): come per chiunque, la Scrittura considera dunque l’eventualità che nelle chiese si presentino situazioni di cui farsi carico: un membro malato o inabile, o in difficoltà economiche, o colpito da altre avversità. Il principio-guida è ben noto e chiaro (la parabola del “buon samaritano”: Luca 10:25-37, che d’altronde va applicata nei confronti di tutti gli uomini indistintamente)ma il “bene” (beneficenza, assistenza) può paradossalmente diventare molto nocivo per il raggiungimento del bene ultimo, ovvero la salvezza eterna. In Romani 12:10-15 leggiamo:

    “Quanto all’amore fraterno, siate pieni di affetto gli uni per gli altri. Quanto all’onore, fate a gara nel rendervelo reciprocamente. Quanto allo zelo, non siate pigri; siate ferventi nello spirito, servite il Signore;  siate allegri nella speranza, pazienti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, provvedendo alle necessità dei santi, esercitando con premura l’ospitalità. Benedite quelli che vi perseguitano. Benedite e non maledite. Rallegratevi con quelli che sono allegri; piangete con quelli che piangono.”

    Partecipazione, dunque, ai bisogni altrui. Ma come svolgere tale attività di aiuto? La Chiesa è sì composta da individui, ma essi non sono- presi uno ad uno- la chiesa , per capirlo, basti pensare in questo caso ad una qualunque associazione umana. Se , ad esempio , faccio parte dei “donatori di sangue”, io non sono l’associazione, e quest’ultima – composta anche da me- non è me: essa dunque ha il suo patrimonio, un modo stabilito di raccogliere fondi, ed è rappresentata da organi; vive in pratica, una propria vita legata anche alla mia, ma non completamente confusa con la mia. Il mio stipendio resta sempre mio, e faccio con esso quello che mi pare; se poi ne dono una parte all’associazione, tale parte non è più mia e non può più essere usata per fini miei propri, ma solo per quelli che l’associazione si è legalmente proposti. Inoltre, non posso portare problemi personali all’interno dell’associazione, se non nei modi e termini eventualmente stabiliti, né posso farmi autonomamente carico di attività da svolgere. Valga ciò anche per la chiesa ed i membri che la compongono, perché queste sono le indicazioni che il Nuovo Testamento ci dà.

    Dobbiamo allora domandarci quando vogliamo far materialmente del bene a qualcuno, se , come e quanto può o deve farlo la chiesa in quanto chiesa: essa infatti ha un proprio patrimonio, un proprio bilancio, costituito dalle collette dei fedeli. Nel momento in cui una parte delle mie entrate è devoluta alla comunità affinché essa possa essere messa in condizione di raggiungere i propri fini, devo capire bene quali essi sono, per rispettarli. Qualche esempio pratico: un mio amico è in gravi difficoltà finanziarie: posso chiedere alla chiesa di aiutarlo con i soldi della comunità? Oppure: possiamo sovvenire ai bisogni di una popolazione di terremotati coi soldi della chiesa, o spedirli in Etiopia per una carestia? E ancora, per parlare anche dei membri della chiesa: possiamo costruire, con i soldi delle comunità, un ospizio dove assistere gli anziani, o gli orfani cristiani , etc.? la risposta non va ricercata nei nostri “io penso, io credo . . .”, ma nel Nuovo Testamento: ci autorizza Dio, esplicitamente o tramite esempi apostolici, a far cose simili? No! Non troviamo nelle Scritture né un comando  esplicito, né un esempio apostolico, per sostenere simili pratiche. Il perché è semplice: non sono questi gli scopi della chiesa; se lo fossero, essa sarebbe stata strutturata in ben altro modo. Per svolgere tali compiti come si deve, infatti, essa dovrebbe non solo trascurare il proprio scopo ( la predicazione) ma anche a volte inserirsi in quelle fitte reti finanziarie e mondane che nulla hanno a che fare col Vangelo.

    Non esiste beneficenza ad opera della chiesa come mezzo di predicazione, né tanto meno come fine a sé stante! Un esempio biblico ci chiarirà meglio le idee! 1° Timoteo 5 parla di persone che – specialmente nel I secolo – si trovavano in condizioni economiche molto critiche: le vedove ( che nella Bibbia , assieme agli orfani , sono il classico esempio della persona bisognosa). Da tale contesto capiamo come il prendersi cura economicamente di qualcuno da parte della chiesa sia l’eccezione e non la regola.

    Innanzitutto, si parla solo di membri della congregazione: quelli di fuori non sono nemmeno considerati. Poi, affinché la persona possa essere aiutata coi soldi della comunità (quindi, del Signore) Paolo richiede una serie di requisiti personali (anzianità , unico matrimonio, buona testimonianza passata e presente, servizio costante per gli altri) ed ancora una condizione oggettiva: che non vi siano familiari che possano prendersene cura personalmente. Solo se la persona possiede i requisiti soggettivi ed oggettivi richiesti (nel caso specifico: se è “veramente vedova”, ossia bisognosa senza altre possibilità d’aiuto, e se è meritevole per il servizio svolto) la chiesa dovrà essere “aggravata”, dovrà cioè portare il peso economico della sua condizione. Se la chiesa non può, dunque, sovvenire come chiesa ai bisogni materiali dei propri membri salvo che in casi eccezionali, come potrà occuparsi di quelli di fuori, non “familiari”?

    Con ciò, non dobbiamo assolutamente sminuire l’immensa importanza dell’aiuto reciproco fra cristiani , come individui uno verso l’altro (Cfr. ad es. I Timoteo 6:17-18, I Giovanni 3:17-18, Giacomo 2:15-17) ed anche verso tutti gli uomini, a prescindere da chi essi siano (Matteo 25:31-46). Aver chiari i fini e le regole della chiesa non deve farci dimenticare i nostri fondamentali doveri di credenti; capire ciò che la chiesa non deve fare non ci esime dal capire anche ciò che come singoli cristiani dobbiamo fare; anzi, è la chiesa stessa che , con la sua opera di predicazione ed edificazione, mi deve istruire su quelli che sono i miei doveri di aiuto verso i familiari, i fratelli in Cristo ed il prossimo in generale. È con lo spirito nuovo del Vangelo che diventerò più sensibile , attento alle sofferenze e difficoltà altrui, pronto a prodigarmi pagando di tasca mia ( col mio tempo, i miei sforzi), proprio come il buon samaritano. Possiamo aiutare un estraneo, ma per conto nostro o associandoci distintamente dalla chiesa e se possiamo aiutare un fratello senza aggravare la comunità, dobbiamo farlo, affinché con le nostre buone opere confermiamo il buon insegnamento ricevuto e non intralciamo l’andamento della casa di Dio, che serve a salvare le anime della gente facendole convertire a Cristo. Saremo giudicati anche in base a ciò che avremo fatto agli altri personalmente, e non scaricando le nostre responsabilità sulla chiesa o altre istituzioni.

    “Non dimenticatevi della beneficenza e di far parte dei vostri beni agli altri , perché di tali sacrifici il Signore si compiace!” ( Ebrei 13:16).

    La beneficenza non è dunque, di regola, un fine della chiesa; essa si esercita solo eccezionalmente verso membri della propria comunità; in ogni altro caso, è solo una logica conseguenza dell’insegnamento ricevuto nella chiesa stessa, efficace nelle relazioni interpersonali. È ovviamente lodevole la partecipazione del cristiano ad istituzioni ed attività umanitarie, fatto salvo l’adempimento del proprio dovere all’interno della comunità di Cristo.

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