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    I FONDACI DI NAPOLI

     

     Quanto scrivo è frutto di una mia accurata ed attenta ricerca anche su testi specifici che ho consultato nella biblioteca nazionale.

     

    Potrei scrivere di altri argomenti, ma scelgo i fondaci di Napoli, senza voler far politica, anacronismo, retorica o retrospettiva su fatti di questa città che molti credono ormai andati ma che sotto vari aspetti,  non sono andati.

     

    Sui fondaci ne scrisse una serie di articoli la grande giornalista Matilde  Serao, nata nel 1856 e morta  nel 1927, I suoi articoli furono poi raccolti nel libro “Il Ventre di Napoli”

     

     Dove erano i fondaci? Essi si estendevano  a valle, da piazza Municipio (allora largo del Castello) dov’è ora via Marina sino ad oltre piazza Mercato, oltre l’ospedale Loreto Mare ed a monte sino a poco più su di Piazza Nicola Amore e verso l’attuale P. Garibaldi.

     

     Cosa erano i fondaci? Tutto, tutto fuorché delle abitazioni, invece erano proprio delle abitazioni.

     

    Quanti erano? Nel 1870 erano 108 suddivisi in vari quartieri.

     

    Ogni fondaco consisteva in un agglomerato di decadenti costruzioni umide e fetide nel cui cortile affacciavano terrazzini e balconi.

     

    Gli ingressi erano bui e senza finestre; la ritirata era una sola ed in comune, essa scaricava i liquami nel cortile, dove ristagnavano ed i bambini spesso vi giocavano intorno. Questi ambienti pieni di ogni genere di insetti ed animali erano focolai di infezioni.  La morte vi era di casa.

     

    In una testimonianza di un abitante dell’epoca è scritto: Qui non si può respirare, le ritirate sono in comune e non sono altro che un buco per terra che poi scarica nel cortile, vi lascio immaginare l’odore che ne esce. Pensate che dopo che ho lavorato per più di 18 ore al giorno, pagate una miseria, la notte non posso dormire perché devo cacciare le zoccole che danno a morse ai figli miei”.

     

    A volte quando tiriamo l’acqua dal pozzo la troviamo mischiata (con rispetto parlando), ai nostri escrementi…

     

    Nei fondaci vi erano anche delle taverne e delle locande, il cui bagno o ritirata era un buco a terra situato in cucina.

     

    Questa era la realtà napoletana dell’epoca nei fondaci, particolarmente della parte bassa della città, quella che abbracciava i vari ampliamenti compiuti al tempo del Ducato e sotto le dominazioni: Normanna, Sveva, Angioina, Aragonese, e Vicereale, avvenuti dal 903 al 1596 in circa sette secoli, riducendo e congiungendo senza ordinamento, diverse borgate col resto della città. Rendendo la parte bassa di Napoli la più irregolare ed insalubre, anche perché priva di ventilazione.

     

    Alla insalubrità di quei quartieri, concorrevano oltre le caratteristiche topografiche, la presenza di lavori nocivi alla salute che producevano pericolose esalazioni.

     

    Le zone di Porto, Mercato e Pendino ospitavano gran parte dell’artigianato napoletano, esercitato in condizioni di assoluta inefficienza igienica

     

     Questo lavoro lungo e complesso avrebbe richiesto spazi ed un sistema efficace per lo smaltimento dei rifiuti, a causa della tossicità degli stessi. Una soluzione fu adottata da Re Ferdinando II nel 1835, con la costruzione del borgo denominato Conceria Nuova, tra il ponte della Maddalena ed il mare, facendovi trasferire i conciatori.

     

    Tuttavia alla fine del secolo, la concia continuava ad essere praticata all’interno delle abitazioni stesse dei conciatori, che abusivamente trattavano ogni tipo di pelle, anche di cani e gatti, inquinando pozzi ed imbrattando strade.

     

    Nel quartiere Pendino si riscontrava analoga situazione, infatti nel 1865 esistevano 49 tintorie in pieno abitato, senza alcuna forma di sicurezza. Nei vari angusti vicoli adiacenti, tra i quali: vico Ferri Vecchi, vico storto di San Marcellino, la calata di San Severo c’erano piccole fonderie, fabbriche di sego, di sapone, di fiammiferi ed altro; oltre a depositi di derrate alimentari, salumi e baccalà, non sempre gradevoli all’olfatto.

     

    In conseguenza delle condizioni ambientali, particolarmente in queste zone, proliferavano malattie come il rachitismo, la tisi, la scrofola (una forma di tubercolosi generalizzata), la clorosi (una forma di anemia che conferisce un colorito giallo-verdastro) e le febbri tifoidi.

     

    E’ in questo scenario che si sviluppavano ripetute epidemie di colera che seminavano strage tra la popolazione. Tra le più violente quelle del 1836-37 del 1854-55, del 1865-67, del 1873 e del 1884. Per una malattia ciclica come il colera, la mancata rimozione delle cause di insalubrità si rivelò fatale.

     

    Il colera del 1884, fu violentissimo e svolse un ruolo essenziale: portò Napoli al centro delle cronache nazionali. La città ed i quartieri bassi ebbero l’onore di accogliere re Umberto I ed il Presidente del Consiglio Agostino Depretis i quali si convinsero che era giunto il momento della bonifica.

     

    Sui termini di realizzazione e sui progetti della bonifica vi furono disaccordi e critiche che durarono sino al 1889. Tra queste, Matilde Serao imputava al governo ed in particolare al Presidente del Consiglio ignoranza ed indifferenza verso i problemi di Napoli. Riferendosi alla frase  “bisogna sventrare Napoli” pronunciata da Depretis in occasione della sua visita, la Serao sosteneva la inadeguatezza dei provvedimenti che si andavano prendendo per il “Ventre di Napoli”.

     

    Il 15 Giugno 1889 (quattro anni dopo la promulgazione della legge), nella Piazza del Porto, alla presenza dei sovrani si inaugurarono i lavori di risanamento. Il sindaco Nicola Amore pronunciò il discorso iniziando con queste parole: “SOTTO QUEL SUPPORTICO ADDIMANDATO DEI NASTRI, CHE CI E’ DINNANZI, E CHE DOVRA’ TRA POCO ESSERE ABBATTUTO, VEDESI UNA VECCHIA LAPIDE CON AL DISOPRA  UNA ISCRIZIONE DEL CONCETTO SEGUENTE: IN TEMPO DELLA PESTE DEL 1656 NON SI APRA AD ALCUNO; E PER CIRCA DUE SECOLI TUTTI SI ARRESTARONO SPAVENTATI INNANZI ALLA MISTERIOSA ISCRIZIONE E NESSUNO SI ARDI’ DI MUOVERE UNA PIETRA”.

     

    In quel momento di trionfo, tutta l’opera dei quartieri bassi e la costruzione dei rioni di ampliamento era dinnanzi agli occhi di Nicola Amore.

     

    Sulla facciata dell’edificio che fa da sfondo alla Piazza Giovanni Bovio (Piazza Borsa) c’è una lapide che ricorda la posa della Prima Pietra per la trasformazione del Mercato di Porto in Piazza Borsa.

     

     Un monumento fu eretto a ricordo di Nicola Amore nella omonima piazza. Esso fu spostato su di una aiuola a Piazza Vittoria,  nel 1938 per il passaggio del corteo durante la visita di Hitler e Mussolini a Napoli.

     

    Dei fondaci risultarono utili soltanto le macerie che servirono a colmare lo spazio tra S. Lucia ed il mare su cui fu costruita tutta la zona sino a via Nazario Sauro.

     

     Tra i giudizi della Serao, dopo il risanamento, nel 1904, ella scrisse del Rettifilo: un imponente palazzo, rossastro, pomposo si pavoneggia con le sue cento finestre e, accanto, voi scovrite un vuoto, un muretto basso si prolunga, si prolunga, un muretto su cui la pubblicità allegramente appende i suoi quadri, da anni e anni, e dietro questo muretto, molto più indietro sorgono delle masse di case lercie, cadenti, miserabili, di tutte le misure, macchiate di tutte le stigmate della povertà e del vizio.

     

    Ciò sparisce: un’altra costruzione moderna che tenta di ridarvi una parvenza di civiltà, ma fatto accorto, voi cercate ficcar l’occhio , ai fianchi, alle spalle, e subito dietro a 8 o 10 metri ecco, di nuovo, un affogamento di topaie, dalle cui finestre pendono i cenci più indecenti, magari con la poesia del vaso di basilico e del popone sospeso a un giunco” (da “Il Ventre di Napoli” 1994 pag.92

     

    Successivamente è ancora la Serao a scrivere, affermando che le grandi idee dei grandi uomini, i vasti progetti a base di milioni e le colossali opere che volevano il risanamento igienico e morale di Napoli, avevano fatto fiasco. Ella si domandava se vi era alcun rimedio o altro da fare di fronte a tanta tristezza, a tanti disastri ed a tanti pericoli sociali, concludendo con una frase che può dare adito a diverse interpretazioni, dubbi, avvertimento o speranza! “CHI SA! VEDREMO”!

     

     E’ ancora Matilde Serao che scrive:

     

    Lì dove l’impero del lordo marciume, dell’ignoranza e degli escrementi si espande, è normale che le epidemie, la povertà più imbarazzante e la criminalità dilaghino.

     

    Questo è il Ventre di Napoli, la vita delle stradine ove il sole più non arriva e, con esso, anche le istituzioni, cieche di fronte ad una realtà abbastanza aberrante e lontane dal  puzzo mefitico dei liquami che si espandono per le viuzze dissestate. Vero che in questi stessi ricettacoli di insanità, a fianco della miseria vive il folklore, la pietà degli umili per gli umili, la carità, le vane speranze del gioco d’azzardo, il lotto, la pizza, il mandolino,  e le botteghe delle arti impareggiabili nel mondo.

     

     La Serao ha percorso quelle stradine; ha affrontato il pericolo, andando lì dove le autorità non passavano ieri, come oggi, perché contente della gioia che riempie gli occhi di chi oggi, transita per via Caracciolo, di chi si accontenta di vedere il bel panorama, di visitare Posillipo, apprezzare il folklore….di chi si accontenta di sentir parlare della miseria e dei problemi senza andare a farne la conoscenza diretta……di chi si accontenta di prendere decisioni su realtà non ben conosciute.

     

    In un centinaio di pagine, Matilde, che ama Napoli, ricorda alla politica che non serve spendere milioni per far funzionare la città, non serve costruire nuove strade lussuose; c’è solo bisogno che le istituzioni svolgano il loro compito.

     

    Sui fondaci ne scrissero anche altri nomi importanti, tra cui Pietro Ferrigni nel 1877 (con lo pseudonimo di Yorick) dove un periodo recita: “Lì, dentro ai mille bugigattoli oscuri e crollanti, stanno fino a quattrocento famiglie ammunticchiate, mescolate, confuse, perdute in quei labirinti; lì nascono vivono e muoiono migliaia di individui che non hanno mai veduto Capodimonte né il Vomero; e che non usciranno né per amore né per forza, finchè il piccone dei demolitori municipali non riduca il topaio in un mucchio di rovine” Queste rivelazioni delle miserie di Napoli destarono grande impressione, ma il governo non fece niente per risolvere la situazione sino al 1884 quando comparve la più disastrosa epidemia colerica.

     

     Ritengo che l’idea che si possa risanare una città semplicemente cambiandone l’assetto urbanistico e senza controlli, è quantomeno bizzarra.

     

    Oggi come allora, molti vicoli sono impenetrabili ed impenetrati sia dai napoletani che dalle loro istituzioni e dal Sole.

     

    Il Ventre di Napoli e quello di Yorick sono libri  che dovrebbero leggere coloro che non li hanno letti  e chi dice che bisogna parlare del bello e non del brutto della città: cosa sbagliata, perché questi concetti fondamentali valgono per qualunque luogo del pianeta vittima di se stesso, degli altri e del disagio di essere una metropoli.

     

    Per Napoli, questa stupenda città che è molti anni più vecchia di Firenze e più antica di Roma, che possiede un patrimonio di opere d’arte, di musei, di monumenti che coprono tutto l’arco della nostra storia, poiché vittima di un progressivo degrado, credo sia giunta l’ora di dire basta a quelli che non fanno perché non sanno, che proprio perché trascurata,  da Napoli sono partite le peggiori epidemie, a quelli che sanno ma non fanno per loro convenienze, a quelli che sanno ma fanno finta di non sapere, che ai tempi dei fondaci le gravi epidemie impiegavano tempo per raggiungere altre città: a quelli che sanno ma che non possono fare o non sono in grado di fare per ragioni a noi sconosciute. 

     

     Da cosa furono causate le epidemie dei fondaci? Da bombe batteriologiche. Mi si potrebbe obiettare che da allora c’è stato  progresso, e’ vero dico io, ma il progresso accanto a fatti positivi, ne porta  tanti negativi,  perché quando mal gestito. provoca regresso morale e materiale in tutti i campi. Oggi oltre alle bombe batteriologiche della spazzatura, il progresso ci ha portato l’inquinamento atmosferico, del mare, dei fiumi e laghi, la diossina, i veleni che ingeriamo attraverso  cibi ed acqua, le droghe, che stanno distruggendo i cervelli dei nostri giovani, onde magnetiche,  radioattività dalle centrali nucleari che causano tumori,   (a Latina scorie insicure, quattro vecchie centrali del Garigliano realizzate tra gli anni 50 -70 da svuotare, demolire e riportare a prato verde richiedono  milioni per la bonifica. I tempi? Non prima del 2024) e……circa il computer? Cosa dire?

     

     Il progresso ci ha anche allungata la vita, rispetto ai tempi dei fondaci, ma in che qualità? Spesso solo vegetale o tra gravi sofferenze!

     

    Quando  mi domando quale futuro stiamo preparando alle nuove  generazioni, la diagnosi è feroce,  la prognosi? fatela voi!

     

     La nostra cara città,  oggi come ieri, anzi peggio di ieri è stata portata  negativamente all’attenzione del mondo per problemi che se non affrontati con capacità, decisione, buona volontà ed onestà, non saranno risolti e porteranno Napoli alla fine di una strada già imboccata: quella di una via senza ritorno! 

     

     Che la società insegni ai nostri ragazzi,  i valori della vita e della famiglia, che sia ridata loro quella fiducia che hanno persa in una realtà alla quale il loro “io” si oppone attraverso  sballo di droga, prostituzione e atti criminosi.

     

    Che sia  ridata  ad essi   possibilità di lavoro che eviti la loro emigrazione verso lidi più accoglienti.

     

    Tutti  siamo responsabili dei nostri figli, perché essi sono il risultato di un nostro atto d’amore, di un nostro desiderio, di una nostra speranza, essi non hanno chiesto di nascere, ma siamo stati noi a dargli la vita! 

     

    E’ auspicabile che i responsabili di tanto degrado, si scorcino le   maniche e lavorino seriamente per ridare a questa città, madre di grandi nomi, lo splendore che l’aveva resa famosa nel mondo per le sue bellezze naturali, per le sue tante ricchezze artistiche, per l’abilità dei suoi artigiani  e per  l’ospitale carattere del suo popolo, che ha richiamato qui turisti di ogni ceto sociale.

     

     E…..SPERIAMO CHE DIO NON CI VOLTI MAI LE SPALLE!  SE NON CE LE HA GIA’ VOLTATE!

    Alberto Del Grosso

     

     

     

     

     

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